17 Febbraio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  17 Febbraio 2013

Cari fratelli e sorelle,

come sapete ho deciso di rinunciare al ministero che il Signore mi ha affidato il 19 aprile 2005. Ho fatto questo in piena libertà per il bene della Chiesa, dopo aver pregato a lungo ed aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza, ben consapevole della gravita di tale atto, ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede. Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura. Ringrazio tutti per l’amore e per la preghiera con cui mi avete accompagnato. Grazie! Ho sentito quasi fisicamente in questi giorni, per me non facili, la forza della preghiera, che l’amore della Chiesa, la vostra preghiera, mi porta. Continuate a pregare per me, per la Chiesa, per il futuro Papa. Il Signore ci guiderà. (BENEDETTO XVI, Udienza di Mercoledì 13 febbraio 2013)

Carissimi Parrocchiani,

ho riportato le parole che in questi giorni più volte abbiamo ascoltato: parole che ci hanno sorpreso, forse anche un po’ scosso. Credo che il modo migliore per leggere questa decisione presa da Benedetto XVI sia di attenerci a quanto egli stesso ha dichiarato.
Il Papa rivela in quale contesto è maturata. È maturata in “piena libertà”: nessuna pressione dall’esterno, tanto che ha colto tutti impreparati; “dopo aver pregato a lungo”: per chi ha affidato la propria vita nelle mani di Dio, non esiste più una decisione privata. Tutto è vissuto a partire dalla volontà di Dio. Ha pregato, è giunto alla certezza che questo ora il Signore gli sta chiedendo; nell’obbedienza si affida; in lucida consapevolezza sia della gravita del fatto (un fatto che contrasta con la prassi abituale, quantunque sia una possibilità prevista dal Codice di Diritto Canonico), sia della precarietà delle forze che lo rendono inadeguato all’assolvimento del ministero petrino.
Il Papa rivela anche la fonte della sua fiducia nel fare tale passo: la “certezza che la Chiesa è di Cristo, il quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura”. Così, egli ribadisce l’umile e sincero riconoscimento, fatto all’inizio del suo pontificato, di essere semplicemente “un umile operaio nella vigna del Signore”. Operaio che ha servito la Chiesa con tutta la sua vita e che, ora, senza vantare alcun diritto, è pronto a farsi da parte, per il bene della Chiesa stessa.
Anche Gesù, in circostanze analoghe, consapevole di essere al tramonto della sua vita terrena, si congedava dai discepoli parlando del suo distacco e affidandoli alla custodia amorevole del Padre.
Carissimi Parrocchiani, in questi giorni che rimangono prima del 28 febbraio, ripensiamo al dono che Benedetto XVI ci ha fatto in questi anni in cui ha guidato al largo la “barca” di Pietro. Lasciamo spazio in noi al sentimento della gratitudine per il molto ricevuto e restiamogli spiritualmente vicini con la nostra preghiera, come Egli stesso, ringraziandoci, ci chiede.
Il nostro Vescovo in una sua lettera indirizzata a noi sacerdoti, esprimendo la sua ammirazione per la testimonianza di grande umiltà del Papa, ci invita non solo a pregare per lui, ma anche per noi tutti perché “possiamo essere all’altezza della conversione che il gesto del Papa propone oggi a tutta la comunità cattolica”.

Don Luigi Pedrini

10 Febbraio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  10 Febbraio 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver sostato sulla figura di Giuseppe e sulla figura dei fratelli, così come emergono nella vicenda drammatica del complotto, volgiamo, infine, l’attenzione sulla figura del padre.

Il finale di questa vicenda mette in risalto il dolore di un padre: un dolore immenso, inconsolabile. Forse i figli non si aspettavano di creare una ferita così profonda; una ferita che – come già accennavo – resterà aperta fino alla fine.

Eppure, questo dolore infinito avrà un valore redentivo: i figli, profondamente impressionati dal dolore arrecato al padre, non si sentiranno più di dargli ulteriori dispiaceri.

Comincia, così, ad affiorare quel sentimento di premura e di tenerezza verso il padre che sarà determinante per la rinascita degli affetti in questa famiglia.

Giustamente L. A. Schokel fa notare che “un padre che soffre sarà un punto permanente di riferimento, una forza sommersa di coesione” (L. A. Schokel, Giuseppe e i suoi fratelli, Paideia, 19942, p. 34). E sarà proprio così.

Possiamo concludere questa riflessione sulla scena del complotto aprendo uno spiraglio su Gesù; uno spiraglio del tutto legittimo dal momento che ogni pagina della Bibbia parla di lui.

Nella vicenda di Giuseppe che va in cerca dei fratelli possiamo vedere una prefigurazione di Gesù che ha voluto farsi uomo per venirci incontro: Egli si è presentato tra noi come il buon pastore che va in cerca delle pecore perdute e ferite per riportarle all’ovile e curarle.

Abbiamo rimarcato la prontezza di disponibilità con cui Giuseppe ha accettato di affrontare un viaggio così lungo, di allontanarsi da casa e di avventurarsi su strade sconosciute. Questa disponibilità rende palese – annota giustamente M. I. Rupnik – una grande sicurezza interiore tipica di chi sapendosi molto amato, è profondamente in pace con se stesso (cfr. M. I. Rupnik, Cerco i miei fratelli. Lectio divina su Giuseppe d’Egitto, Lipa, Roma 1998, pp. 31-32).

Anche in questo possiamo scorgere un tratto anticipatore di Gesù: infatti, nella sua disponibilità ad abbassarsi e a umiliarsi fino al punto di rinunciare a presentarsi in mezzo a noi come Dio per assumere una vita in tutto uguale alla nostra, possiamo intravedere la profonda comunione d’amore che lega Gesù al Padre.

Proprio questo amore, sorgente viva di pace, ha spinto Gesù a lasciare la sua ‘casa’, il suo ‘cielo’, cioè la sua condizione divina, per inoltrarsi sui sentieri di questa nostra povera umanità.

Don Luigi Pedrini

3 Febbraio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  03 Febbraio 2013

Carissimi Parrocchiani,

 dopo aver sostato sulla figura di Giuseppe quale emerge nella vicenda drammatica del complotto, ora volgiamo l’attenzione sulla figura dei fratelli.

Essi offrono la chiara immagine di una fraternità lacerata al proprio interno. È vero che in alcuni di loro – Ruben prima, Giuda poi – c’è stato un recupero di amore fraterno: essi si danno pensiero per la vita di Giuseppe e invitano, espressamente, gli altri fratelli a non ucciderlo perché è pur sempre un loro fratello: è della loro carne e del loro sangue. Teniamo presente che per gli ebrei il legame della carne e del sangue costituiva il fondamento primo dell’unità familiare.

Il triste evolversi della vicenda del complotto mette, però, bene in luce tutta la fragilità di questo fondamento: una unione fondata soltanto sul legame della carne e del sangue alla fine non è una garanzia sicura di armonia e di coesione all’interno di una famiglia.

È per questo che Gesù proporrà una nuova fraternità non più fondata sui legami della carne e del sangue, ma sulla fede verso il Padre: “Chi fa la volontà del Padre” – cioè chi ripone in Dio la fiducia e lo ama fino al punto da affidare totalmente a Lui la propria vita – “è per me fratello, sorella e madre”. E’ la fede, unita all’amore verso il Padre, che fonda la fraternità cristiana.

La proposta di Gesù ci sollecita ad una verifica della nostra fraternità; di quella fraternità che siamo chiamati a testimoniare nell’ambito della cerchia familiare come anche nell’ambito della comunità parrocchiale. Che cosa veramente ci unisce? È soltanto un fondamento orizzontale che si radica nella cordialità e nel rispetto umano, oppure è il fondamento verticale della nostra fede cristiana grazie alla quale siamo figli di Dio e, quindi, fratelli fra noi?

La vicenda di Giuseppe insegna che se prevale il fondamento umano nel migliore dei casi vengono fuori le proposte di compromesso di Ruben e Giuda che, però, alla fine non tengono. È necessario, invece, arrivare a volersi bene nel Signore, a riceversi a partire dal Signore.

Questo è il modo cristiano di amarsi e di vivere la comunione reciproca. Vale all’interno della comunità parrocchiale; vale all’interno di quella comunità straordinaria – cellula fondamentale della società e della Chiesa – che è la famiglia.

Ne consegue che cammino della fraternità è proporzionale al nostro cammino di radicamento in Cristo: è la meta di tutta la vita ed è il compimento di quel germe di filiazione donatoci nel battesimo che ci rende famiglia nel Signore.

Don Luigi Pedrini

 

 

27 Gennaio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 27 Gennaio 2013

Carissimi Parrocchiani,

prima di congedarci dal racconto del complotto tramato dai fratelli ai danni di Giuseppe, propongo ancora una pausa riflessiva per ritornare sui protagonisti della vicenda.

Il primo personaggio al quale volgiamo l’attenzione è Giuseppe. L’abbiamo lasciato nell’episodio precedente come un giovane sul quale va delineandosi, alla luce dei sogni, un futuro di guida all’interno della cerchia familiare. Tuttavia, Giuseppe è ancora un giovane inesperto: deve imparare quella sapienza della vita fatta di prudenza, di discrezione, che consente di non sottrarsi davanti alle proprie responsabilità senza, per questo, urtare la sensibilità altrui.

In questo episodio, Giuseppe avvia i primi passi verso la realizzazione di quanto prospettato dai sogni. Infatti, troviamo sulla sua bocca un’espressione che svela per la prima volta la sua vocazione personale. Mentre sta vagando per la campagna senza riuscire a trovare i fratelli, incontra un uomo che gli chiede: “Che cerchi?”. Prontamente, Giuseppe risponde: “Cerco i miei fratelli”.

Queste parole si riferiscono immediatamente alla missione affidatagli da Giacobbe e, quindi, all’assolvimento di un compito che egli, nell’obbedienza al padre, si è assunto. Eppure, la risposta di Giuseppe, sia pure a sua insaputa, è carica di un significato più grande. Giuseppe senza rendersi conto sta camminando proprio nella direzione prospettata dai sogni: egli dovrà essere colui che va alla ricerca dei suoi fratelli, cioè dovrà svolgere in mezzo a loro una missione di unità e di coesione.

È interessante notare che l’avvio di questa missione avviene grazie alla richiesta del padre che incontra la pronta obbedienza di Giuseppe. Certo, alll’origine di questa vocazione sta l’iniziativa di Dio che già si è manifesta tramite i sogni. Tuttavia, la chiamata di Dio è mediata dal mandato del padre che invia il figlio in ricerca dei fratelli. Dunque, Giuseppe ha avuto i sogni quali segni premonitori; la loro realizzazione passa, però, attraverso la concreta mediazione del padre.

Tutto questo ha qualcosa da dire anche al nostro cammino vocazionale. Anche alla radice della nostra vocazione sta, anzitutto, l’iniziativa di Dio e, quindi, il disegno che egli da sempre ha su di noi. Tuttavia, questa iniziativa ha preso corpo nella nostra storia personale grazie alle cura materna della Chiesa che si è espressa tramite le persone che si sono messe al nostro fianco per accompagnarci e per guidarci nel cammino.

Dunque, nella docilità nei confronti della Chiesa ciascuno di noi va realizzando la propria vocazione personale. Obbedendo alla Chiesa noi corrispondiamo al disegno che Dio ha su di noi e realizziamo quel “nome nuovo” che solo Dio conosce e che costituisce la nostra identità.

È quanto rimarcava anche il card. J. Ratzinger nell’omelia funebre tenuta in occasione delle esequie di Giovanni Paolo II. Sottolineava, infatti, che determinante per il cammino di fede fatto da Giovanni Paolo II è stata la sua obbedienza alla Chiesa. Proprio, grazie a questa obbedienza è venuta delineandosi la sua vocazione personale alla quale ha aderito senza riserve. Pertanto, tutta la sua straordinaria vicenda di fede si illumina a partire dal ‘sì’ che ha detto giorno per giorno ad una sola parola: “Seguimi”.

Don Luigi Pedrini

 

20 Gennaio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 20 Gennaio 2013

Carissimi Parrocchiani,
seguendo l’evolversi dai fatti nella tragica scena del complotto perpetrato dai fratelli ai danni di Giuseppe, arriviamo ora alla terza scena, nella quale il testo riferisce di Giacobbe ingannato dai figli e la situazione di vuoto e di profondo dolore che viene a crearsi in famiglia (vv. 31-36)

[31]Presero allora la tunica di Giuseppe, scannarono un capro e intinsero la tunica nel sangue, [32]Poi mandarono al padre la tunica dalle lunghe maniche e gliela fecero pervenire con queste parole: «L’abbiamo trovata; riscontra se è o no la tunica di tuo figlio».

Dopo aver venduto Giuseppe, resta in mano ai fratelli la tunica che gli avevano strappato di dosso. La intingono nel sangue di un capro e la mandano al padre quale prova tangibile della sua morte. Questo un particolare molto crudo rimanda a un fatto analogo raccontato in precedenza al cap. 27. Si riferisce che Isacco viene ingannato dal figlio Giacobbe e che l’inganno è avvenuto -guarda caso — servendosi di un capretto ucciso di cui Giacobbe si è rivestito per dare l’impressione di essere Esaù. Analogamente, ora, il sangue di un capretto ucciso permette ai figli di ingannare il padre Giacobbe.

[33]Egli la riconobbe e   disse: «£” la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato sbranato».

Giacobbe senza difficoltà riconosce la veste e in buona fede, senza il minimo sospetto sui figli, riconosce che una bestia lo ha sbranato. La diagnosi è errata e, tuttavia, contiene un elemento di verità: Giuseppe è stato davvero sbranato da una bestia feroce, la più feroce, quella dell’odio che, se trova spazio nel cuore umano, può spingere verso i delitti più efferati.

[34]Giacobbe si stracciò le vesti, si pose un cilicio attorno ai fianchi e fece lutto sul figlio per molti giorni. [35]Tutti i suoi figli e le sue figlie vennero a consolarlo, ma égli non volle essere consolato dicendo: «No, io voglio scendere in lutto dal figlio mio nella tomba». Il padre suo lo pianse. [36]Intanto i Madìaniti lo vendettero in Egitto a Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie.

Giacobbe fa il lutto per il figlio e questo lutto dura molti giorni. Non si accenna ad alcun segno di pentimento da parte dei figli; anzi, il testo dice che essi vanno a consolare il padre, il che suona come una presa in giro.
Così si conclude questa vicenda, con un padre che piange di dolore ed è un dolore che accompagnerà tutto il racconto fino alla fine (cfr. cap. 45).

Don Luigi Pedrini

16 Dicembre 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 16 Dicembre 2012

Carissimi Parrocchiani,

concludevo la volta scorsa riferendo la tragica risoluzione presa dai fratelli nei confronti di Giuseppe: metterlo a morte e, poi, giustificare la sua perdita dicendo al padre che una bestia feroce lo ha sbranato.

La decisione di disfarsi di Giuseppe riscuote il consenso di tutti i fratelli; tuttavia, vanno ricordati due interventi – il primo di Ruben, il secondo di Giuda – che, in qualche modo, prendono le distanze da una risoluzione così radicale e tragica. In sostanza, Ruben e Giuda vorrebbero evitare che si ripeti la storia dolorosa di Caino e Abele, drammatico esempio di una fraternità rovinata dall’invidia e dall’odio. Pertanto, questi due fratelli si fanno portavoce di soluzioni alternative.

 [21]Ma Ruben sentì e volle salvarlo dalle loro mani, dicendo: <<Non togliamogli la vita>>.

[22]Poi disse loro: <<Non versate il sangue, gettatelo in questa cisterna che è nel deserto, ma non colpitelo con la vostra mano>>; egli intendeva salvarlo dalle loro mani e ricondurlo a suo padre.

 Questi versetti riferiscono la prima soluzione offerta da Ruben. Egli, quale primogenito, in qualità di fratello maggiore, si sente responsabile della vita di Giuseppe: toccherà, poi, a lui rendere conto al padre di ciò che gli è accaduto.

La soluzione alternativa che egli propone consente di raggiungere l’obiettivo prefissato – disfarsi di Giuseppe – senza per questo versare, direttamente, il suo sangue. La sua proposta appare buona e viene accolta.

[23]Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica dalle lunghe maniche ch’egli indossava,

[24]poi lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua.

 C’è da notare il particolare della tunica: togliere di dosso a Giuseppe quella tunica odiosa che lo distingueva dagli altri è la prima cosa che fanno i fratelli. Quindi, dopo averlo afferrato, lo gettano in una cisterna vuota, una di quelle cisterne che serviva per raccogliere l’acqua piovana.

Segue, a questo punto, una precisazione che ha dell’incredibile: Poi sedettero per prendere cibo (v. 25). Il fatto che, dopo aver preso una decisione del genere, si siedano per prendere cibo è qualcosa di raccapricciante e crudele. Sembra quasi insinuare l’idea che i fratelli, essendo riusciti, finalmente, a liberarsi di un peso, ora devono festeggiare.

Don Luigi Pedrini

 

09 Dicembre 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 09 Dicembre 2012

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Giuseppe in procinto di incontrare i fratelli, dopo una ricerca impegnativa e non priva di difficoltà.

Il testo riferisce che i fratelli lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono contro di lui per farlo morire (v. 18).

Siamo qui alla seconda scena: quella del complotto che va dal versetto 18 al versetto 30. Giuseppe è ancora lontano, ma il clima di gelosia che si è creato, fa maturare nei fratelli il progetto di eliminarlo: Si dissero l’un l’altro: “Eccolo! È arrivato il signore dei sogni! (v. 19).

Come si vede, Giuseppe non viene chiamato con il proprio nome, ma con il titolo di “signore dei sogni”. L’espressione originaria si potrebbe tradurre, anche più semplicemente, “il signor sogno” (così propone A. Schokel). L’intento di questo soprannome canzonatorio è chiaro: si vuole mettere in ridicolo il disagio che si avverte nei confronti di Giuseppe, come per esorcizzare i timori e le paure create dai suoi sogni.

In realtà, alla radice di questo atteggiamento di derisione, c’è tanta paura mascherata; ed è proprio da questa paura che nasce la decisione di uccidere Giuseppe: la sua eliminazione appare ai fratelli come l’unico mezzo per porre fine ai sogni percepiti solo come elemento di disturbo alla fraternità e non come possibile ricchezza e complementarità. La diversità fa loro problema: pensano che tra fratelli debba esserci posto solo per una piatta uniformità.

Al riguardo, viene in mente una considerazione significativa di don Milani, secondo la quale sarebbe giusto trattare tutti allo stesso modo, ma a condizione che fossimo veramente tutti uguali; in realtà, non è così. Noi – egli afferma – “siamo unici, diversi e irrepetibili” e, pertanto, “non c’è maggior ingiustizia di fare parti uguali tra diseguali”.

Così, per Giuseppe, il “signore dei sogni” si prospetta la sorte che, più avanti, sarà riservata ai profeti, a motivo della scomodità dei loro messaggi. I sogni di Giuseppe, come le profezie, sono avvertite come una minaccia per il futuro e, di conseguenza, vanno messe a tacere anche con scelte estreme: Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in una cisterna! Poi diremo: “Una bestia feroce l’ha divorato!” (v. 20).

La decisione assunta dai fratelli prende i contorni di un tragico complotto di morte.

 Don Luigi Pedrini

 

02 Dicembre 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 02 Dicembre 2012

Carissimi Parrocchiani,

stiamo contemplando la prima delle tre scene che compongono la drammatica vicenda del complotto dei fratelli nei confronti di Giuseppe.

Egli, obbedendo alla richiesta del padre, si è incamminato verso Sichem dove essi si trovano con il gregge. Durante il tragitto avviene un fatto singolare.

 (15)Mentre egli si aggirava per la campagna, lo trovò un uomo, che gli domandò: “Che cosa cerchi?”.
(16)Rispose: “Sono in cerca dei miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare”.
(17)Quell’uomo disse: “Hanno tolto le tende di qui; li ho sentiti dire: “Andiamo a Dotan!””. Allora Giuseppe ripartì in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan.

 Dunque, Giuseppe, a un certo punto si ritrova disperso per la campagna, senza intravedere i fratelli. Mentre disorientato girovaga per la campagna, incontra uno sconosciuto che gli chiede: “Che cerchi?” ed egli, prontamente, risponde. “Cerco i miei fratelli”.

È degna di nota questa ricerca di Giuseppe: da una parte, rivela la sua inesperienza; dall’altra, rivela anche la sua fedeltà e il suo coraggio nell’adempiere il compito che si è assunto. Il padre l’ha inviato ai fratelli per informarsi sul loro stato di salute (il termine è shalom: che significa benessere, pace) e, dunque, per una missione di pace; Giuseppe la compie con sollecitudine e perseveranza, senza arrestarsi di fronte alle difficoltà.

Nel testo è ravvisabile una sottile e tragica ironia. Giuseppe sta andando in cerca dei fratelli, ma c’è da chiedersi: fino a che punto sono veramente fratelli quelli che va cercare? Ciò che lo muove è l’ossequio verso il padre e un’intenzione sincera di pace verso i fratelli; in realtà, egli non sa che sta andando incontro alla sua disgrazia.

In ogni caso, è bella la sua dichiarazione: “Cerco i miei fratelli”. Giuseppe è già da questo momento colui che cerca i suoi fratelli: desidera confortarli, portare pace, restituirli al dono della fraternità.

È questa la sua ‘vocazione personale’ che risponde ad un disegno assai più grande di Dio, che va oltre la sua stessa persona e la sua famiglia. Infatti, i figli di Giacobbe nel disegno di Dio sono destinati ad essere i capostipiti delle dodici tribù del popolo di Israele. Pertanto, la posta i gioco è grande: si tratta dei fondamenti del popolo di Israele e perché i figli di Giacobbe possano assolvere questa missione si richiede che esista tra loro una fraternità riconciliata.

Così, dopo un lungo viaggio, finalmente, Giuseppe arriva dai fratelli: li incontra: a Dotan, località che si trova a 35 chilometri da Sichem.

 

Don Luigi Pedrini

 

25 Novembre 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 25 Novembre 2012

Carissimi Parrocchiani,

seguendo l’evolversi dei fatti nella famiglia di Giacobbe, ci imbattiamo, ora, nella tragica vicenda del complotto perpetrato dai fratelli ai danni di Giuseppe.

Per semplicità, possiamo dividere il racconto di questa triste vicenda in tre scene: la prima scena presenta Giuseppe che, obbedendo ad una richiesta del padre, va in cerca dei fratelli (w. 12-17); la seconda scena è costituita dal complotto tramato dai fratelli contro Giuseppe: prima, lo gettano in una cisterna e, poi, lo vendono ad alcuni mercanti diretti in Egitto (w. 18-30); la terza scena riferisce l’inganno del padre e la situazione di vuoto e di profondo dolore che viene a crearsi in famiglia (w. 31-36). Consideriamo, ora, il racconto della prima scena: Giuseppe è inviato ai fratelli (vv 12-17)

(12)I suoi fratelli erano andati a pascolare il gregge del loro padre a Sìchem.  (13)Israele disse a Giuseppe: “Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro”. Gli rispose; “Eccomi!”. (14)Gli disse: “Va’ a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a darmi notizie “. Lo fece dunque partire dalla valle di Ehron ed egli arrivò a Sichem. (15)Mentre egli si aggirava per la campagna, lo trovò un uomo, che gli domandò: “Che cosa cerchi?”. (16)Rispose: “Sono in cerca dei miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare”. (17)Quell’uomo disse: “Hanno tolto le tende di qui; li ho sentiti dire: “Andiamo a Dotan!””. Allora Giuseppe ripartì in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan.

Abbiamo già constatato nel racconto precedente il progressivo deteriorarsi dei rapporti tra Giuseppe e i fratelli: i legami di fratellanza appaiono fortemente compromessi.

La scena ci presenta Giuseppe in casa col padre, mentre i fratelli sono lontani con il gregge: si trovano a Sichem per far pascolare il gregge. La distanza tra Ebron (il luogo dove abita la famiglia di Giacobbe) e Sichem è di 80 Km. Questa distanza geografica, non indifferente, è segno della distanza, più radicale, quella interiore che si è creata nei rapporti fraterni. Ormai, manca soltanto l’occasione opportuna perché questa distanza, che è diventata sempre più grande, si manifesti ali’esterno in tutta la sua veemenza.

Questa è, dunque, la situazione: da una parte, i fratelli che sono via con il gregge; dall’altra Giuseppe a casa con Giacobbe per fargli compagnia e anche da messaggero: il fatto di non essere vincolato al gregge gli permette di muoversi con scioltezza e con libertà.

In questa situazione, Giacobbe decide di inviare Giuseppe ai fratelli per avere loro notizie e, forse, anche nella speranza, un po’ ingenua, di poter sanare quella estraneità che si è creata in famiglia: Vieni ti voglio mandare da loro. Giuseppe prontamente accetta: Gli rispose: Eccomi (v.13).

Don Luigi Pedrini

 

18 Novembre 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 18 Novembre 2012

Carissimi Parrocchiani,

ritorno con voi sulla domanda lasciata aperta – chi sono i fratelli alla luce di questi avvenimenti? – e rispondo con le parole del Card. Martini. La sua risposta variegata ci aiuta a non confinare i fratelli di Giuseppe e il loro operato in un passato lontano, ma a vederli come rappresentazione emblematica di comportamenti erronei che ancora oggi possono presentarsi fra noi. Scrive il Card. Martini:

I fratelli di Giuseppe siamo noi che proviamo gelosia e invidia per chi ha più di noi, per chi sembra contare più di noi, per chi ha più potere di noi. […]

I fratelli sono l’umanità che ha paura del piano salvifico di Dio e delle sue parzialità. L’umanità che teme che Dio abbia delle preferenze…

Volendo storicizzare ancora meglio la riflessione, direi che i fratelli sono l’umanità che ha paura di Israele, dei privilegi del popolo ebraico, ed è piena di invidia e di gelosia verso questo popolo. Possibile che sia davvero scelto, eletto da Dio? Un’invidia che ha causato lungo i secoli persecuzioni terribili.

Infine, i fratelli sono la società razionalistica che ha paura della Chiesa, perché ha paura del cosiddetto potere e privilegio ecclesiastico, ha paura che la Chiesa voglia invadere, dominare la classe politica, che voglia costruire un corpo a sé nella società. Il laicismo cova tale sospetto, talora favorito dalle occasioni date da noi cristiani, così come Giuseppe dava occasione al sospetto e usava dei suoi privilegi per lavorare meno. Anche questa paura equivale a non accettare il disegno di Dio, l’elezione di Cristo” (C.M. Martini, Due pellegrini per la giustizia, Casale Monferrato 1992, pp. 78-79).

Concludo, rispondendo ad un’ultima domanda: in questo contesto, chi è il padre Giacobbe? Egli, pur rimproverando Giuseppe per le insinuazioni contenute nel racconto del suo sogno, tuttavia, custodirà nel cuore le parole del figlio, dimostrando, in questo, un profondo rispetto per lui e per il suo futuro destino che potrebbe andare al di là di ogni immaginazione.

Giacobbe, da uomo che ha imparato a scrutare e a discernere pazientemente il disegno di Dio, anche quando il senso dei fatti risultava difficile da decifrare, non giudica, non chiude il discorso, ma preferisce attendere e riflettere. Se il Signore vorrà, farà ‘come’ e ‘quando’ lui sa.

Da questo punto di vista, Giacobbe è testimonianza esemplare dell’atteggiamento tipico del credente che lascia spazio a Dio perché conduca le cose secondo la sua sapienza. Così, ha fatto Maria che custodiva e meditava tutto nel suo cuore (Lc 2,19).

 

Don Luigi Pedrini

Diocesi di Pavia