05 Maggio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  05 Maggio 2013

Carissimi Parrocchiani,

interrompo momentaneamente il commento alla vicenda di Giuseppe, per richiamare la nostra attenzione alla Giornata Nazionale dell’8XMILLE che ricorre in questa domenica.

Questa giornata si celebra in tutte le parrocchie italiane per ricordare l’importanza di firmare per destinare l’8Xmille alla Chiesa cattolica.

È grazie alla firma di ciascuno, infatti, che la Chiesa cattolica ha potuto assicurare, anche nello scorso anno – così si legge nel resoconto dei Vescovi italiani – “il funzionamento di mense per i poveri, centri di accoglienza, case famiglia per persone in difficoltà. Ha realizzato progetti di pastorale negli oratori, creato fondi per le famiglie in crisi. Ha contribuito al sostentamento di 37 mila sacerdoti diocesani”.

Più precisamente si apprende, dal rendiconto ufficiale 2012, che le entrate dello scorso anno sono state così utilizzate: 479 milioni di euro per progetti di culto e pastorale; 363 milioni per il sostentamento dei sacerdoti diocesani; 255 milioni per la carità in Italia e nel Terzo mondo (per chi volesse conoscere in dettaglio le voci dell’utilizzo delle entrate può consultare il sito www.8Xmille.it

Come vedete con una semplice firma sul modello CUD o il modello 730 o il modello UNICO si può dare alla Chiesa un grande contributo.

Vi ringrazio anticipatamente per l’aiuto che anche quest’anno vorrete dare.

 

Don Luigi Pedrini

28 Aprile 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  28 Aprile 2013

Carissimi Parrocchiani,

voglio sostare ancora sull’episodio che vede Giuseppe messo alla prova nella sua onestà per concludere con due brevi considerazioni.

 Anzitutto, il testo dice che Giuseppe per non cedere alla seduttrice ha fatto la scelta radicale della fuga: lasciò tra le mani la veste, fuggì e uscì. In precedenza, sono molto significative le ragioni che Giuseppe ha portato per giustificare il suo diniego. In primo luogo, protesta la sua intenzione di giustizia e di onestà nei confronti del padrone; in secondo luogo, si difende appellandosi in ultima istanza a Dio: Come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?

Dunque, Giuseppe fa fronte a questa situazione chiamando in causa direttamente il suo rapporto con Dio. Per lui, c’è in gioco una questione di appartenenza a Dio riguardo alla quale non è disposto a scendere a compromessi.

L’esperienza dice che questa coscienza viva di appartenenza a Dio non si improvvisa, matura a poco a poco, mette radice attraverso la preghiera e la contemplazione. Infatti, è proprio del contemplativo arrivare a riconoscere Dio in tutte le cose, trovarlo in tutti gli eventi, percepirlo come colui che lo guida, lo custodisce, lo salva, lo ama, così che tutto sia commisurato su di Lui.

Da questo punto di vista scopriamo Giuseppe come un uomo dalla ricca interiorità che, attraverso la preghiera, vive amichevolmente il suo rapporto con Dio, rapporto così solido e radicato da resistere a qualsiasi lusinga fuorviante.

La seconda considerazione riguarda la punizione della prigionia a cui Giuseppe va incontro. Una punizione ingiusta, non meritata. Piuttosto, a motivo della sua onestà e della sua fede, Giuseppe poteva aspettarsi un intervento di Dio che facesse verità e smascherasse l’inganno, così da risparmiargli la dura prova del carcere. Le cose, però, non sono andate così.

La storia di Giuseppe ci rimanda continuamente al mistero della croce che attraversa la vita del discepolo. Chiunque decide di seguire Cristo e di fare la sua stessa strada sa che i conti – se letti secondo la logica del mondo – non tornano. Giuseppe ci insegna che spesso il bene non solo non ha la ricompensa dovuta, ma anche va incontro al fraintendimento, all’incomprensione, fino all’opposizione palese. E questo perché il mondo, viaggiando su parametri che non sono quelli del servizio e del dono gratuito di sé, prova fastidio di fronte a chi cammina nel bene.

Giuseppe, tuttavia, andrà avanti per la sua strada: al male non risponderà con il male e continuerà a perseverare nel bene.

Anche Gesù farà lo stesso: all’ingiusta condanna a morte risponderà con un amore capace di donarsi fino alla fine.

Don Luigi Pedrini

21 Aprile 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  21 Aprile 2013

Carissimi Parrocchiani,

prima di congedarci da questo episodio nel quale l’onestà di Giuseppe viene messa a dura prova, voglio ritornare sulla vicenda per fare qualche considerazione che può tornare utile anche per il nostro personale cammino di purificazione interiore.
Abbiamo letto nel testo biblico che Giuseppe era bello di forma e attraente di aspetto (Gen 39,6).
Questo particolare nel contesto del brano non vuole richiamare semplicemente l’attenzione su una dote fisica, ma anche alla benedizione di Dio su Giuseppe: la bellezza esteriore di Giuseppe è un segno di gradimento da parte di Dio.
La cosa singolare è che proprio questo dono diventa per Giuseppe il luogo della prova e della prima crisi a cui va incontro nel paese straniero in cui si trova.
Proprio da questa singolarità possiamo, anzitutto, raccogliere una considerazione importante per la nostra vita spirituale: ogni dono, prima o poi, diventa motivo di tentazione.
Per Giuseppe la tentazione consiste nell’accondiscendere alla richiesta della moglie di Potifar e di trarne dei vantaggi per costruirsi una rete di potere e di privilegi nella casa del suo padrone.
A rendere ancora più appetibile questa tentazione contribuisce il fatto che Giuseppe vive come separato in terra straniera: è un separato dai suoi fratelli. Questa dimensione sofferta rende più forte il bisogno di appoggiarsi e di trovare accoglienza presso qualcuno.
Quando una persona ha il cuore ferito e amareggiato è più facilmente esposta alla tentazione di darsi alle cose più banali, di lasciarsi andare. Talvolta, poi, può insinuarsi anche una logica di rivalsa che porta a ragionare presso a poco così: mi hanno messo da parte, mi hanno emarginato; ora, faccio vedere che sono capace di costruirmi io, da solo, un’altra vita…
Ecco, la tentazione: Giuseppe potrebbe utilizzare il dono ricevuto per ricostruire la vita secondo un suo progetto, anziché secondo il progetto di Dio. È la tentazione di sempre dell’uomo, quella a cui hanno ceduto i nostri progenitori, fin dall’inizio, nel paradiso terrestre, quando hanno voluto impadronirsi del dono ricevuto per raggiungere i propri scopi prescindendo dal donatore, cioè da Dio,
Così, questa prima considerazione ci ricorda che proprio dove il dono ricevuto è più grande siamo chiamati a vivere una grande purificazione: proprio lì siamo chiamati a vivere la nostra pasqua, cioè a fare quel passaggio di morte a noi stessi, al nostro egoismo, per rinascere liberi alla vita autentica, quella del dono di sé.
Dunque, questo episodio della vicenda di Giuseppe ci insegna che proprio dove il talento è più forte si incontra la prova della spoliazione, della “chenosi”, cioè dello svuotamento di noi stessi. La posta in gioco è importante: si tratta di far sì che il talento ricevuto sia usato non nell’orizzonte dell’egoismo, ma dell’amore.

Don Luigi Pedrini

14 Aprile 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  14 Aprile 2013

Carissimi Parrocchiani,

concludevo l’altra volta accennando ad una testimonianza rabbinica nella quale si mette in risalto la constatazione palese dell’innocenza di Giuseppe da parte dei giudici egiziani e, insieme, la strumentale risoluzione che viene presa per non compromettere il buon nome della famiglia di Potifar.

Così, si legge nel racconto midrashico della tradizione ebraica:

 Quando l’accusa della moglie di Potifar contro Giuseppe venne portata dinanzi a una corte, il giudice dopo aver ascoltato le due parti, fece portare la tunica di Giuseppe e la esaminò attentamente.

Tenendola ben in alto disse: ‘Se questo schiavo, come dice la sua padrona, ha tentato di usarle violenza ed è fuggito alle sue grida, la tunica, da lei trattenuta per avere una prova evidente contro di lui, dovrebbe essere strappata sul dorso. Se invece ella gliela strappò per eccitare il proprio desiderio, lo strappo dovrebbe essere davanti’.

Tutti i giudici giurarono solennemente che lo strappo era sul davanti, ma per non gettare in discredito la moglie di Potifar, gettarono Giuseppe in prigione pur raccomandando ai custodi di trattarlo meno severamente dei compagni di carcere.

 

In questo modo, Giuseppe si trova ancora a sprofondare nel buio e a vivere un’esperienza davvero amara: la sua giustizia, la sua onestà, la sua fedeltà non gli hanno giovato: non sono state capite, né premiate. L’esito è che ora – come già era accaduto prima in occasione del complotto dei fratelli – si ritrova ancora nella fossa.

È ammirevole il grande spirito di sopportazione con cui Giuseppe accetta questa nuova sventura.

Così, annota il testo biblico:

 Così egli rimase là in prigione. Ma il Signore fu con Giuseppe, gli conciliò benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del comandante della prigione (Gen 39,20b-21)

 Dunque, una nuova grande prova per Giuseppe, ma “con” il Signore al proprio fianco. Egli trova benevolenza attorno a sé, pur nel buio della prigione. Da parte sua, nessuno rimprovero a Dio, né alcuna ribellione interiore.

Giuseppe rimane in carcere due anni, vivendo questo tempo sofferto come una scuola di profonda purificazione interiore.

 

Don Luigi Pedrini

 

 

7 Aprile 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  07 Aprile 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo la pausa dovuta, prima, all’elezione di Papa Francesco; poi, alla Settimana Santa e alla Pasqua, riprendiamo il filo della vicenda di Giuseppe.

Abbiamo concluso l’ultima volta sottolineando la dirittura morale con cui egli, piuttosto che offendere Dio e tradire la fiducia del suo padrone, sceglie la fuga di fronte alle molestie della moglie di Potifar. Ed ecco che cosa accade.

 

3Allora lei, vedendo che egli le aveva lasciato tra le mani la veste ed era fuggito fuori, 14chiamò i suoi domestici e disse loro: “Guardate, ci ha condotto in casa un Ebreo per divertirsi con noi! Mi si è accostato per coricarsi con me, ma io ho gridato a gran voce. 15Egli, appena ha sentito che alzavo la voce e chiamavo, ha lasciato la veste accanto a me, è fuggito e se ne è andato fuori”.

 

Dunque, la moglie di Potifar, anziché demordere e rassegnarsi di fronte al comportamento irreprensibile di Giuseppe, preferisce rincarare la dose e passa all’accusa. A questa decisione forse non è del tutto estranea l’intenzione – come annota ancora il card. Martini – di far vedere al marito che lei è una donna desiderata e, quindi, meritevole di attenzione. Infatti, quando il marito ritorna, riferisce la versione dei fatti già data, in precedenza, ai servi.

 

16Ed ella pose accanto a sé la veste di lui finché il padrone venne a casa. 17Allora gli disse le stesse cose: “Quel servo ebreo, che tu ci hai condotto in casa, mi si è accostato per divertirsi con me. 18Ma appena io ho gridato e ho chiamato, ha abbandonato la veste presso di me ed è fuggito fuori”. 19Il padrone, all’udire le parole che sua moglie gli ripeteva: “Proprio così mi ha fatto il tuo servo!”, si accese d’ira. 20Il padrone prese Giuseppe e lo mise nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione.

 

Il marito si accende d’ira e punisce Giuseppe con rigore. Tuttavia, dalla risoluzione presa (“lo mise in prigione”) si capisce che Potifar non è del tutto persuaso dalle parole della moglie. Se lo fosse stato, avrebbe riservato una sorte ben diversa a Giuseppe, dal momento che quel capo di imputazione poteva esse punito anche con la morte. La spiegazione dell’ira di Potifar va cercata, allora, altrove: probabilmente, egli subodora la tresca della moglie, ma non volendo scontrarsi con lei, si vede costretto, suo malgrado, a rinunciare ad un servitore nel quale poteva riporre interamente la sua fiducia.

Così, controvoglia si trova a dover prendere posizione e opta, sia pure con dispiacere, per questa risoluzione. Giuseppe viene consegnato alla giustizia egiziana e ciò a cui va incontro sono le pareti buie di una cella.

Anche se la Scrittura non ne parla espressamente, sappiamo da testimonianze rabbiniche che c’è stato un processo al fine di accertare la veridicità delle accuse sollevate nei confronti di Giuseppe. Anzi, secondo tali testimonianze, i giudici egiziani dovettero constatare palesemente l’innocenza di Giuseppe. Per ragioni, però, di convenienza umana hanno preferito non impugnare la difesa nei suoi confronti. Di questo, però, parleremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

24 Marzo 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  24 Marzo 2013

Carissimi Parrocchiani,
con la celebrazione della domenica delle palme diamo inizio alla settimana santa e, così, apriamo la via verso il triduo pasquale.
Come siamo chiamati ad entrare in questa settimana che ha cambiato e ancora sta cambiando la storia del mondo? La Chiesa ci fa entrare cominciando con un’acclamazione a Cristo come vincitore e come re. A noi viene da domandarci se sia una scelta opportuna, dal momento che nei prossimi giorni faremo memoria delle sofferenze del Signore. In realtà, noi non guarderemo alla Passione solo con sentimenti di compassione e di dolore, ma anche con sentimenti di riconoscenza e di gioia perché il Signore ha vinto la morte e regna dalla croce.
Lungo tutta questa settimana, rivivremo il mistero della passione e risurrezione di Cristo come mistero di vittoria e di salvezza per l’uomo.
In questa Domenica delle Palme contempliamo Gesù che entra deliberatamente e coraggiosamente nella città che sta tramando contro di Lui.
Nel Giovedì Santo contempleremo Gesù nel cenacolo, che presenta il pane e il vino come segno della sua decisione di dare la vita per noi.
Nel Venerdì Santo staremo con Maria e l’apostolo Giovanni sotto la croce, per sperimentare l’amore salvifico di Gesù fino all’ultima goccia di sangue.
Nel Sabato Santo contempleremo il sepolcro dove Gesù si è lasciato rinchiudere per sigillare il suo amore per noi oltre i limiti dell’esistenza umana.
Nella notte di Pasqua risentiremo il grido dell’alleluia, grido che è già nascosto e implicito in tutti i canti di questa settimana perché nella vita, morte e risurrezione di Cristo ci è dato di vivere con lui in eterno.
E, dunque, la settimana della vittoria della croce che noi cominciamo a celebrare oggi, sostando in questo inizio su questo anticipo di vittoria di Cristo che è l’ingresso in Gerusalemme.
A tutti l’augurio di vivere bene questi giorni di grazia!

Don Luigi Pedrini

17 Marzo 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  17 Marzo 2013

Carissimi Parrocchiani,

 con trepidazione, con fede, con gioia abbiamo accolto la nomina del Card. Jorge Mario Bergoglio alla Sede di Pietro. Ora abbiamo un nuovo Papa: Francesco.

 Abbiamo avuto modo di vederlo e ascoltarlo nella diretta televisiva mentre pronunciava come pontefice le sue prime parole. Siamo stati colpiti dalla sua semplicità: si è presentato come un vescovo che i suoi fratelli Cardinali sono andati a prendere “quasi alla fine del mondo”, riferendosi alla sua terra natale: l’Argentina. Ancor più ci ha colpito l’umiltà con la quale ha chiesto ai fedeli di pregare qualche istante in silenzio per il loro vescovo. Anche la scelta di un nome come quello di san Francesco appare carica di speranza e, insieme, di rinnovamento.

 Nelle sue parole, pur nella loro essenzialità, ha avuto un’attenzione per tutti: ha nominato più volte la Chiesa di Roma, chiamata a presiedere nella carità tutte le Chiese; ha augurato ai cristiani un cammino di fratellanza, di amore, di reciproca fiducia; ha chiesto per il mondo il dono di una grande fratellanza. Non ha mancato di ricordare Benedetto XVI invitando a pregare per lui.

 Questa sua sensibilità per tutti nasce, certamente, dalla sua storia personale che lo lega ad una Chiesa – quella argentina – che ha un’attenzione maggiore, di quanto non avvenga qui in Europa, per i poveri.

Tuttavia, credo, che la sorgente più profonda di questa attenzione vada cercata nella sua esperienza di fede. In questa direzione indirizza il suo motto episcopale – quella frase che ogni vescovo sceglie nel momento in cui viene consacrato e che ha una sorta di valore programmatico per la sua missione episcopale – che suona così: miserando atque eligendo. È tratta da un’omelia di San Beda il venerabile che commentando le parole evangeliche: “Gesù vide un uomo chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte e gli disse: ‘Seguimi’”, scrive che Gesù “vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelsemiserando atque eligendo – gli disse: ‘Seguimi’”. Il motto richiama, dunque, l’attenzione sull’amore gratuito e preferenziale del Signore capace di far breccia nel cuore delle persone.

Con questo stesso amore Francesco ha scelto di guardare a questa nostra umanità, ispirandosi all’esempio di san Francesco e, più a monte, di Gesù, buon Pastore.

 Lo accompagneremo con la nostra preghiera in tutto il suo ministero; ma, soprattutto, in questi primi giorni gli siamo particolarmente vicini.

Don Luigi Pedrini

 

10 Marzo 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  10 Marzo 2013

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Giuseppe ormai inserito nella casa di Potifar, il consigliere del faraone di cui si è guadagnato la piena fiducia. Ma, ecco, ora l’insidia che mette alla prova la sua rettitudine.

 [7]Dopo questi fatti, la moglie del padrone gettò gli occhi su Giuseppe e gli disse: <<Unisciti a me!>>.

 A motivo della sua bellezza Giuseppe è desiderato dalla moglie di Potifar. L’approccio molto diretto autorizza a fare qualche supposizione: forse questa donna soffriva a motivo di una certa disaffezione da parte del marito e, probabilmente, era una donna frustrata nella sua femminilità. La ragione del suo comportamento non è tanto perché sia innamorata di Giuseppe, ma perché vorrebbe in questo modo ingelosire il marito. A conferma di questa scarsa attenzione che incrina i legami familiari depone anche la grande libertà che Potifar concede a Giuseppe nei riguardi della moglie.

 [8]Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo padrone: <<Vedi, il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa e mi ha dato in mano tutti i suoi averi. [9]Lui stesso non conta più di me in questa casa; non mi ha proibito nulla, se non te, perché sei sua moglie. E come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?>>.

 Giuseppe, messo alla prova, non cede e questo per due ragioni: da una parte, vuole essere fedele al suo padrone e, così, ripagare con l’onestà la fiducia che gli accorda; dall’altra, non vuole peccare contro Dio, compromettendo quell’appartenenza a Lui che è ormai il senso della sua vita.

 [10]E, benché ogni giorno essa ne parlasse a Giuseppe, egli non acconsentì di unirsi, di darsi a lei.

 La tentazione è insistente: è una sorta di stillicidio continuo a cui Giuseppe oppone una resistenza quotidiana, anche se – forse, anche in questo caso, – con un po’ di ingenuità. Egli non si rende conto, probabilmente, che il suo rifiuto non è risolutivo e che la donna, lungi dall’accontentarsi della sua risposta, si sarebbe, anzi, indispettita fino a farne una questione di puntiglio personale. E, infatti, un giorno, mentre Giuseppe è in casa e non ci sono gli altri domestici, la donna

 [12 lo afferrò per la veste, dicendo: <<Unisciti a me!>>. Ma egli le lasciò tra le mani la veste, fuggì e uscì.

A questo punto, a Giuseppe non resta che la fuga. Va notato che – paradossalmente – al centro di questa vicenda troviamo ancora la veste che, qui, simboleggia la dirittura morale di Giuseppe. Egli è, davvero, l’immagine perfetta dell’uomo biblico: l’uomo timorato di Dio che cammina con onestà davanti a Lui.

 Don Luigi Pedrini

3 Marzo 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  3 Marzo 2013

[1]Giuseppe era stato condotto in Egitto e Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie, un Egiziano, lo acquistò da quegli Ismaeliti che l’avevano condotto laggiù. [2]Allora il Signore fu con Giuseppe: a lui tutto riusciva bene e rimase nella casa dell’Egiziano, suo padrone. [3]Il suo padrone si accorse che il Signore era con lui e che quanto egli intraprendeva il Signore faceva riuscire nelle sue mani. [4]Così Giuseppe trovò grazia agli occhi di lui e divenne suo servitore personale; anzi quegli lo nominò suo maggiordomo e gli diede in mano tutti i suoi averi. [5]Da quando egli lo aveva fatto suo maggiordomo e incaricato di tutti i suoi averi, il Signore benedisse la casa dell’Egiziano per causa di Giuseppe e la benedizione del Signore fu su quanto aveva, in casa e nella campagna. [6]Così egli lasciò tutti i suoi averi nelle mani di Giuseppe e non gli domandava conto di nulla, se non del cibo che mangiava. Ora Giuseppe era bello di forma e avvenente di aspetto.

Carissimi Parrocchiani,

seguiamo il graduale cammino di purificazione di Giuseppe ponendo attenzione alle prove a cui è stata sottoposta la sua onestà.

Giuseppe, portato in Egitto, si trova, ora, schiavo nella casa di Potifar. Potifar è un uomo molto vicino al faraone e molto stimato da lui: è suo consigliere e comandante delle guardie. Nella sua casa Giuseppe vive un rapida ascesa: da servo, ultimo arrivato, diventa l’uomo di fiducia.

Nei versetti riportati si può notare il tema ricorrente (è quasi un ritornello) dell’assistenza di Dio: il Signore fu con Giuseppe: a lui tutto riusciva bene (v. 2); il Signore era con lui e quanto egli intraprendeva il Signore faceva riuscire nelle sue mani (v. 3); il Signore benedisse la casa dell’Egiziano per causa di Giuseppe…(v. 5). Dunque, Giuseppe, pur lontano dalla sua terra, sperimenta la benedizione di Dio che è con lui così come era stato, prima, con i suoi padri.

Anzi, proprio questa condizione di povertà lo spinge ad andare all’essenziale: egli impara ad appoggiarsi unicamente a Dio, così che l’appartenenza a Dio diventa il tutto della sua vita. Giuseppe tocca con mano che Dio è veramente con lui: ne è prova la felice riuscita del suo lavoro, il beneficio arrecato alla casa di Potifar; la totale fiducia che gli viene accordata dal suo padrone. Anche l’appunto sulla bellezza (Giuseppe era bello di forma e avvenente di aspetto, v. 6b) vuole mettere, ulteriormente, in risalto la benedizione di Dio su di lui.

C’è da notare al v. 6a il particolare sul cibo: si dice che Potifar chiedeva conto a Giuseppe solo di ciò che mangiava. Singolarità questa che si potrebbe spiegare in due modi: o Potifar era un uomo che si preoccupava molto del cibo; oppure, temeva di essere avvelenato (il ruolo che rivestiva presso il faraone rende plausibile anche questa seconda interpretazione).

Dunque, per Giuseppe, dopo un periodo avaro di soddisfazioni personali, viene a trovarsi in un ambiente in cui si sente accolto, stimato e messo nelle condizioni di dare il meglio di sé. Ma proprio in questa situazione si inserisce l’insidia della tentazione che mette alla prova proprio ciò che è diventato il fondamento della sua vita e, cioè, la sua appartenenza totale a Dio.

  Don Luigi Pedrini

24 Febbraio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  24 Febbraio 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver presentato Giuseppe e le persone che ruotano attorno a lui, il padre Giacobbe e i fratelli, e dopo aver seguito i fatti drammatici del complotto culminato nella vendita di Giuseppe a dei mercanti diretti in Egitto, entriamo, ora, nel cuore di questa vicenda.

Lo facciamo mettendoci in ascolto degli eventi successivi letti, però, da un’angolatura particolare: vogliamo seguire i passi progressivi del cammino di purificazione vissuto prima da Giuseppe e, poi, dai fratelli.
Il cammino di purificazione è un processo lento, graduale, difficile. Non di rado comporta momenti prolungati di oscurità, non scevri da umiliazioni: è un cammino attraverso il quale si è vagliati al crogiuolo, spesso anche attraverso situazioni nelle quali mai avremmo voluto trovarci né mai abbiamo immaginato.
Giuseppe ha, già, sperimentato la grande prova del vedersi rifiutato ed eliminato dai suoi fratelli. Questo, però, è solo l’inizio delle prove che lo condurranno, passo dopo passo, ad una totale purificazione.
Abbiamo appreso dal testo biblico che Giuseppe se, da una parte, si dimostra ancora un po’ ingenuo, tuttavia, è, senza ombra di dubbio, un uomo giusto che crede nell’onestà umana e nel valore dell’amicizia.
Cosa c’è, allora, da purificare in lui? Alla luce del cammino che il Signore gli farà fare, possiamo rispondere che Giuseppe ha dovuto imparare ad andare oltre la sua ingenuità e a vivere i valori dell’onestà e dell’amicizia non solo nell’autenticità, ma anche nel realismo, senza false illusioni o false aspettative che lasciano, poi, l’amarezza dentro.
Solo attraverso questo cammino dì purificazione questi valori mettono veramente radici nella vita, si consolidano e resistono anche di fronte agli scacchi che si possono incontrare.
Seguiamo, allora, il cammino di Giuseppe ponendo attenzione in primo luogo alle purificanti disillusioni riguardo all’onestà e, in secondo luogo, a quelle riguardanti l’amicizia.

Don Luigi Pedrini

Diocesi di Pavia