20 Ottobre 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 20 Ottobre 2013

Carissimi Parrocchiani,

            dopo la pausa riflessiva sull’esperienza sofferta e umiliante della prigione, arriviamo, ora, al cuore della vicenda di Giuseppe e dei suoi fratelli.
Inizia con la liberazione dalla prigione il cammino di risalita di Giuseppe che lo vede da una parte rinascere come uomo, dall’altra anche mettere in atto tutta una serie di iniziative volte a ricomporre nella sua famiglia la fraternità che era stata lacerata.

Giuseppe, dopo aver vissuto questo tempo di purificazione passando attraverso quelle che abbiamo chiamato la disillusione dell’onestà e dell’amicizia, ora, è pronto per svolgere la sua missione riconciliatrice verso i fratelli. Sono passati parecchi anni da quando, diciassettenne, era stato mandato dal padre in “cerca dei suoi fratelli”. Dalle precisazioni cronologiche che troviamo nel testo veniamo a sapere che sono passati, da allora, almeno venti anni. Infatti,  in Gen 41,46 si dice che Giuseppe “aveva 30 anni quando si presentò al faraone di Egitto; inoltre, l’incontro coi fratelli avviene presumibilmente, dopo i sette anni di abbondanza, quando ovunque si fa sentire la carestia e, quindi, sono venti. C’è, poi, ancora una precisazione dei tempi in Gen 45,6 nella quale si dice che la seconda venuta dei fratelli in Egitto avviene due anni dopo l’inizio della carestia nel paese”. .

Il cammino pedagogico che Giuseppe mette in atto per arrivare alla riconciliazione con i fratelli è molto articolato. Intanto, la sua situazione personale è cambiata completamente: da prigioniero, ora si ritrova ad essere, addirittura, viceré d’Egitto. Cos’è avvenuto?

Giuseppe, dimenticato dal coppiere, è rimasto ancora a lungo in prigione. Accade che il faraone fa due sogni misteriosi che in Egitto nessuno riesce ad interpretare. Nel primo sogno vede uscire dal Nilo. prima. sette vacche di bell’aspetto e grasse, poi, sette vacche brutte di aspetto e magre che si affiancano alle altre e, poi, le divorano. Nel secondo sogno vede da un unico stelo spuntare sette spighe grosse e belle; ma, dopo quelle, ecco spuntare sette spighe vuote e arse dal vento che inghiottono le altre spighe.

Finalmente, il capo dei coppieri si ricorda di Giuseppe e lo indica come colui che al faraone può dare, al faraone, la giusta interpretazione.

Così, Giuseppe viene liberato e portato davanti al faraone; interpreta il sogno (ci saranno sette anni di abbondanza nel paese, seguito, poi, da sette anni di carestia) e anche suggerisce al la soluzione per far fronte alla crisi futura.

Inaspettatamente, Giuseppe si ritrova messo a capo come viceré, dell’intero Egitto e, da ministro accorto, a mettere in atto una saggia politica agraria (cf. Gen. 41).

Incomincia, a questo punto, il cammino verso la fraternità riconciliata per il quale ci interessano i capitoli 42-46 e la parte finale del capitolo 50.

Don Luigi

13 Ottobre 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 13 Ottobre 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver ricordato la libertà interiore con cui Gesù ha vissuto l’umiliazione di essere arrestato e fatto prigioniero, voglio ricordare che anche vicino a noi non manca la testimonianza di persone che, attingendo forza della fede, hanno vissuto con coraggio e speranza la dura prova del carcere.

Fra tante testimonianze, voglio ricordare quella di Francesco Nguyen Van Tuan, vescovo di Saigon, capitale del Viet Nam. Tutta ha avuto inizio il 23 aprile 1975 quando Paolo VI lo ha promosso arcivescovo coadiutore a Saigon. La nomina venne interpretata come espressione di un complotto di Roma contro il regime comunista e, per questo, il 15 maggio 1975 venne arrestato e portato in prigione. Nel ricordare quella dolorosa esperienza, il vescovo Van Tuan testimonia la forza della fede che gli ha permesso di trasformare quel cammino, umanamente, di sconfitta, in un cammino di speranza.

 

Gesù, ieri pomeriggio, festa di Maria Assunta, sono stato arrestato. Trasportato durante la notte da Saigon fino a Nhatrang quattrocentocinquanta chilometri di distanza in mezzo a due poliziotti,,ho cominciato l’esperienza di una vita di carcerato. Tanti sentimenti confusi nella mia testa: tristezza, paura, tensione, il mio cuore lacerato per essere allontanato dal mio popolo. Umiliato, ricordo le parole della Sacra Scrittura: ” E stato annoverato tra i malfattori ‑ et cum iniquis deputatus est” (Lc 2,37).

Ho attraversato in macchina le mie tre diocesi, Saigon, Phanthiet, Nhatrang: con tanto amore verso i miei fedeli, ma nessuno di loro sa che il loro Pastore sta passando, la prima tappa della sua Via crucis. Ma in questo mare di estrema amarezza, mi sento più che mai libero. Non ho niente con me,  neanche un soldo, eccetto il mio rosario e la compagnia di Gesù e Maria.Sulla strada della prigionia ho pregato: “Tu sei il mio Dio e il mio tutto “. Gesù, ormai posso dire come san Paolo: “Io Francesco, a causa di Cristo, ora sono in prigione: ego Franciscus, vinctus Jesu Christi pro vobis” (Ef 3,1).

Nel buio della notte in mezzo a questo oceano di ansietà, d’incubo, piano piano mi risveglio: “Devo affrontare la realtà”.“ Sono in prigione, se aspetto il momento opportuno per fare qualcosa di veramente grande, quante volte nella vita mi si presenteranno simili occasioni? No, afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario.

Gesù, io non aspetterò, vivo il momento presente, colmandolo di amore. La linea retta è fatta di milioni di piccoli punti uniti uno all’altro. Anche la mia vita è fatta di milioni di secondi

e di minuti uniti uno all’altro. Dispongo perfettamente ogni singolo punto e la linea sarà retta.

Vivo con perfezione ogni minuto e la vita sarà santa. Il cammino della speranza è lastricato di piccoli passi di speranxa. La vita di speranza è fatta di brevi minuti di speranza. Come tu, Gesù, che hai fatto sempre ciò che piace al Padre tuo.

Ogni minuto voglio dirti: Gesù, ti amo, la mia vita è sempre una “nuova ed eterna alleanza”  con te. Ogni minuto voglio cantare con tutta la Chiesa: Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo …

 (F-X. Nguyen Van Tuan, Cinque pani e due pesci, San Paolo 1997, pp 16-18).

06 Ottobre 2013

BEATA MARIA VERGINE DEL ROSARIO

 Madre, donaci il tuo sguardo. Nessuno ce lo nasconda!

Il nostro cuore di figli sappia difenderlo

da tanti parolai che promettono illusioni;

 da coloro che hanno uno sguardo avido di vita facile,

di promesse che non si possono compiere.

Non ci rubino lo sguardo di Maria,

 che è pieno di tenerezza, che ci dà forza, che ci rende solidali tra noi.

                                                                                  (Papa Francesco)

29 Settembre 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 29 Settembre 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver sostato sull’esperienza della prigionia di Giuseppe, vorrei ora raccogliere qualche considerazione per aprire un confronto con la nostra vita.

Alla luce di questa vicenda possiamo, anzitutto, considerare le nostre esperienze di libertà limitata. Possono essere i momenti in cui ci sentiamo come travolti – quasi “prigionieri” – degli impegni e delle urgenze che premono; oppure, i momenti in cui ci sentiamo colti dalla stanchezza, così che procediamo a fatica, vorremmo fare, ma le forze non rispondono come si vorrebbe.

Possono essere i momenti in cui nello svolgimento del nostro lavoro abbiamo come la sensazione di una certa estraneità: vorremmo presentarci e sentirci accolti per quello che siamo, per quello che crediamo in forza della nostra fede e, invece, ci troviamo a vivere in un ambiente che si muove su altre lunghezze, dove le persone hanno altri interessi e noi fatichiamo ad esprimerci come desidereremmo.

Possono essere i momenti in cui avvertiamo la precarietà della salute: quando non si sta bene, quando si è nella malattia, quando si avverte il peso degli anni che avanzano: anche questi sono tempi di “prigionia”, perché il non poter fare come prima incide sul nostro rapporto con gli altri, sull’assolvimento degli impegni e, perfino, sul nostro rapporto con il Signore: in questi momenti la preghiera diventa alquanto faticosa…

Tenendo presente la testimonianza esemplare di Giuseppe nella prova, possiamo anche chiederci come reagiamo nelle nostre situazioni di “prigionia”: se non ci arrendiamo alla tentazione della tristezza e del risentimento e sappiamo accettarle serenamente con la fiducia e la speranza che il Signore comunque è con noi e, nella sua fedeltà, mai ci abbandona.

Proprio questa fiducia ci testimonia anche Gesù. Il Vangelo racconta che quando egli è arrestato, dopo essere stato interrogato dalle autorità giudaiche, viene condotto nel pretorio per essere giudicato da Pilato. Assistiamo a questo punto a questo singolare colloquio tra Pilato e Gesù: da una parte l’autorità che rappresenta Roma, la potenza di allora, dall’altra, il profeta di Nazaret. Eppure, chi è colto dall’imbarazzo in quella situazione è Pilato, non Gesù. Pilato si trova a disagio di fronte a lui e vorrebbe liberarsene al più presto; Gesù, invece, rimane padrone di se stesso e con fermezza dà la sua testimonianza. Alla domanda che il procuratore romano gli pone: “Che cosa hai fatto di male?” risponde: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio Regno non è di quaggiù”. E quando Pilato, ancor più sorpreso, incalza: “Dunque, tu sei re?”, Gesù risponde: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,35-37).

Come si vede, Gesù è un uomo, ingiustamente, fatto prigioniero e che ha davanti, ormai, la prospettiva di una condanna a morte: eppure, vive tutto questo con profonda libertà e con grande pace.

Don Luigi Pedrini

22 Settembre 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 22 Settembre 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver risposto alla prima domanda (che cosa avrebbe potuto fare Giuseppe?), passiamo ora alla seconda domanda: che cosa, in realtà, ha fatto Giuseppe?

Il testo lascia capire che Giuseppe ha posto la sua fiducia nel Signore. Infatti si legge:

 Il padrone di Giuseppe lo prese e lo mise nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re.  Così egli rimase là in prigione.

Ma il Signore fu con Giuseppe, gli conciliò benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del comandante della prigione  (Gen 39,20-21).

 Dunque, Dio è con Giuseppe, con la sua disgrazia. Ma questo lascia capire che anche Giuseppe era con il Signore.

In secondo luogo, abbiamo ragioni valide – come annota il Card. Martini – per pensare che Giuseppe in prigione abbia pregato e non solo per sé, ma anche per la sua famiglia: per Giacobbe, Beniamino, gli altri fratelli. Senza la preghiera non si spiegherebbe il fatto che Giuseppe saprà, poi, accoglierli, con tanta bontà, fino alla commozione e alle lacrime. E’ pressoché impossibile senza la preghiera continuare a voler bene a persone che ti hanno fatto del male.

È significativa, in proposito, questa testimonianza del Card. Martini:

 Non sto cercando di immaginare. Ricavo l’atteggiamento di Giuseppe da quello di tanti detenuti che mi scrivono spiegandomi come e per chi pregano, come meditano la parola di Dio, come continuano a portare affetto ai loro familiari che magari non vanno a trovarli, proprio grazie alla preghiera”  (C. M. Martini, Due pellegrini per la giustizia, p. 143).

In terzo luogo, Giuseppe in prigione deve aver iniziato un paziente lavoro di rilettura della propria vita, cercando di capire tutto quello che gli era accaduto, di discernere il disegno di Dio su di lui e, quindi, ricomprendere in modo nuovo la sua vita.

Dà conferma a tutto questo il fatto che Giuseppe sia in grado di interpretare i sogni. Questa particolare sensibilità e competenza è indice di un uomo che non ha perso l’allenamento a interpretare la vita e che vuole capire l’ordine e il senso degli avvenimenti.

Prima di essere fatto prigioniero, Giuseppe, nel succedersi concitato degli avvenimenti, non aveva avuto molto tempo per riflettere; ora, in prigione, può dare spazio a questo paziente lavoro di lettura dei fatti e di ciò che Dio va realizzando nella sua vita.

Così, la prigione è stata per Giuseppe un momento ulteriore di purificazione nella fede in quel Dio che sa ricavare il bene anche dal nostro male.

Don Luigi Pedrini

 

15 Settembre 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 15 Settembre 2013

Carissimi Parrocchiani,

avendo davanti a noi il quadro della situazione dolorosa in cui Giuseppe è venuto a trovarsi e avendo anche una percezione di quali sentimenti possono aver invaso il suo animo, vogliamo ora riflettere su di lui a partire da due domande. In primo luogo, ci chiediamo: che cosa avrebbe potuto fare Giuseppe? e, in secondo luogo: che cosa, in realtà, ha fatto Giuseppe?

Alla luce di quanto poeticamente scriveva al riguardo Thomas Mann, non ci è difficile immaginare quelle che avrebbero potuto essere le sue reazioni.

Anzitutto, Giuseppe avrebbe potuto mettersi nell’atteggiamento della vittima e cominciare ad accusare tutto e tutti. Lamentando il fatto di essere stato completamente dimenticato, avrebbe potuto prendersela con il mondo che non è giusto o anche con la gente che è malvagia ed ingrata. In sostanza, egli poteva dare libero sfogo ai sentimenti di delusione, di amarezza, di rivalsa interiore, fino a coltivare anche sogni di vendetta: “Quando uscirò di qui, so io come far pagare quello che ho sofferto…”.

Un’altra reazione poteva essere quella di colpevolizzarsi cominciando a dire: “Ecco, mi sono comportato da ingenuo, da sciocco, non ho imparato nulla dalla vita, ho sbagliato tutto, e il primo sbaglio è stato di accettare la tunica da mio padre; poi, di aver raccontato i sogni e, poi, di aver accettato di andare in cerca dei miei fratelli …”.

Una terza reazione poteva essere quella di congetturare sul da farsi per dimostrare palesemente la sua innocenza: poteva considerare di scrivere una lettera al faraone raccontando le cose come erano andate realmente; oppure, di scrivere lettere a casa, alla sua famiglia, al padre Giacobbe…

Un’ultima reazione possiamo ancora ipotizzare: quella di rifiutare il cibo. Non è un’ipotesi evanescente, come si potrebbe pensare. Accade, talvolta, che una persona, o per l’amarezza che le invade il cuore o per l’umiliazione che ha subito, abbia l’impressione di avere davanti una strada sbarrata che le impedisce qualsiasi barlume di speranza e finisce per lasciarsi andare: così, pian piano, comincia a morire dentro…

In realtà, che cosa ha fatto Giuseppe? Giuseppe non ha seguito nessuna di queste strade. Alla luce di quanto riferisce il testo biblico e di come si è, poi, evoluta la vicenda, possiamo affermare che le scelte di Giuseppe sono state molto differenti.

Ma di questo parleremo la prossima settimana.

 Don Luigi Pedrini

08 Settembre 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 08 Settembre 2013

Carissimi Parrocchiani,

per introdurci alla riflessione sulla sofferta esperienza della prigionia vissuta da Giuseppe, ci lasciamo aiutare da alcune pagine poetiche del romanzo di Thomas Mann intitolato Giuseppe il nutritore. Lo scrittore, dimostrando una profonda conoscenza dell’animo umano, rivela i sentimenti e i pensieri che si affollavano nel cuore di Giuseppe mentre si trovava in viaggio sulla barca che, attraverso il grande fiume, il Nilo, lo stava portando in prigione.

Le circostanze in cui si trovava erano abbastanza cupe; con pensosa tristezza egli le osservava, mentre con i gomiti legati giaceva sulla sua stuoia nella cabina, il cui tetto era carico di vettovaglie per l’equipaggio: meloni, pannocchie di meliga e pane.

La sua situazione era il ripetersi di un’altra terribilmente nota: senza aiuto e abbandonato, egli giaceva ancora una volta in ceppi, come nei tre giorni terribili della luna nera, in cui era stato laggiù nella profondità della buca insieme con sca­rafaggi e millepiedi e come una pecora si era rivoltato nella propria lordura. E se anche le condizioni erano ora meno aspre perché i ceppi gli erano stati messi solo, di­ciamo così, per formalità e la corda, sia riguardo o in­volontaria clemenza, non lo stringeva troppo forte, la caduta non era però meno profonda e violenta, né me­no improvviso e incredibile il mutamento di vita.

Il fi­glio prediletto del padre –  il beniamino che si era sempre unto con olio di gioia – era stato allora trattato come non mai, nemmeno lontanamente, avrebbe creduto possibi­le, e ora a Usarsif – tanto in alto salito nel paese dei morti, avvezzo a dirigere una grande casa, a goder gli agi di una raffinata cultura, a indossare vesti di pieghettato lino, a dormire nella “Camera della Fiducia” –  gli capitava una cosa simile; anch’egli riceveva un colpo inatteso e tremendo […] Un ciclo di vita era compiuto, un piccolo ciclo che si compiva spesso, ma anche uno più grande, più raro, che riportava le stesse cose; perché i cicli si intersecavano in un punto centrale comune. Un breve anno aveva compiuto il suo giro, un anno solare: le ac­que che deponevano il fango si erano ritirate ed era il tempo della seminagione, il tempo della zappa e dell’a­ratro, il tempo in cui la terra veniva rivoltata “. Ogni tanto veniva concesso a Giuseppe di alzarsi dalla stuoia e di fare due passi in coperta e gli capitava di piangere vedendo “i contadini che seppellivano il grano, perché anch’egli veniva sepolto nel buio, in un mondo pieno di speranze lontane. […]

Ogni ora ha la sua dignità e il suo diritto, e non vive secondo le leggi della vita chi non può disperare. Giuseppe era di questa opinione. La sua speranza era anzi un certissimo sapere; ma egli era anche un figlio del presente, e piangeva.

Egli conobbe le sue lacrime. Era profondamente esausto per le pene e i pericoli passati: l’affanno creatogli dalla donna, la grave crisi in cui quest’affanno era culminato, il rivolgimento che aveva mutato tutta la sua vita” (Cfr. Thomas Mann, Giuseppe il nutritore, Mondadori, Milano 1993, pp. 31-33)

Don Luigi Pedrini

01 Settembre 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 01 Settembre 2013

Carissimi Parrocchiani,

 dopo la lunga pausa dovuta, in parte, al tempo delle ferie; in parte, all’infortunio che mi ha costretto a rallentare un po’ le attività, riprendiamo a metterci in ascolto della vicenda di Giuseppe.

Abbiamo considerato le disillusioni a cui è andato incontro e che hanno contribuito a farlo crescere sia umanamente che spiritualmente.

Nella casa di Potifar ha conosciuto, a causa delle false accuse della moglie di lui, la disillusione dell’onestà; in prigione, invece, in seguito alla dimenticanza da parte del coppiere, ha sperimentato la disillusione dell’amicizia.

Ora, vogliamo sostare su questa situazione di prigionia ingiusta, inattesa e prolungata in cui Giuseppe è venuto a trovarsi. È il punto più basso in cui è sprofondato: dopo questa amara esperienza inizierà per lui il cammino della risalita.

Noi ci accostiamo a questa sofferta vicenda nell’ottica di voler raccogliere, anche in questo caso, qualche insegnamento per la nostra vita. La cosa può sorprendere: cosa può mai dirci un’esperienza di questo genere che, almeno sull’immediato, appare ai nostri occhi così lontana dal nostro vissuto quotidiano?

Eppure, tutto cambia se vediamo la prigionia come un simbolo della vita. Letta in questa prospettiva la prigione rimanda a tutte quelle situazioni negative che possiamo incontrare, quelle situazioni che, in certa misura, limitano la nostra libertà e ci fanno sentire il bisogno di essere liberati.

L’anelito alla libertà, allora, è anche nostro e non solo di chi si trova fisicamente in carcere. Del resto, quando Gesù parla di una libertà che è suo dono e afferma: “Se, dunque, il Figlio vi farà liberi, allora sarete veramente liberi” (Gv 8,36) allude, in fondo, ad una situazione di prigionia in cui ci troviamo e addita un traguardo di libertà a cui vuole condurci.

Questa sosta riflessiva sull’esperienza di Giuseppe in prigione ci consente anche di aprire uno sguardo contemplativo sulle tante situazioni di prigionia che ci sono attorno a noi, nel mondo; ad essere spiritualmente vicini a quanti, per ragioni diverse, vivono il dramma del carcere: a volte giustamente per aver sbagliato; a volte ingiustamente a causa della cattiveria umana.

Inoltre, possiamo anche contemplare il volto di Gesù proprio da questa angolatura: non dobbiamo, infatti, dimenticare che anche Gesù, durante la sua passione, è stato consegnato in mano agli uomini e ha conosciuto l’umiliazione dell’arresto e della prigione.

 

Don Luigi Pedrini

Diocesi di Pavia