16 Settembre 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 16 Settembe 2012

Carissimi Parrocchiani,

entrando nella vicenda di Giuseppe ci imbattiamo nel racconto di due sogni. Sono sogni che impressionano profondamente Giuseppe, tanto che subito ne parla in casa: del primo sogno riferisce ai fratelli, del secondo ai fratelli essendo presente pure il padre.

Bisogna dire fin d’ora che i sogni hanno un’importanza particolare nella vicenda di Giuseppe: sono il motivo conduttore di tutta la storia. Nei capitoli che compongono il ciclo a lui dedicato (i capitoli che vanno dal 37 al 50) sono presentati sei sogni: due sono di Giuseppe; due dei ministri del faraone (il coppiere e il panettiere), mentre si trovano in prigione; due del faraone.

Tutti questi sogni ruotano attorno a Giuseppe: i primi due perché lo vedono direttamente protagonista; gli altri in quanto se ne fa interprete. Da questo punto di vista, la figura di Giuseppe appare molto legata ai sogni; sarà così, molto tempo dopo, anche per l’altro Giuseppe, più famoso, Giuseppe di Nazaret, sposo di Maria e padre putativo di Gesù, la cui vicenda è stata segnata da quattro sogni.

Bisogna ancora osservare, al riguardo, che nella cultura di allora il sogno poteva essere interpretato come vaticinio, cioè come una rivelazione di Dio: così, ad esempio, nei capitoli precedenti (cfr: i cap. 28 e 31), i sogni che Giacobbe riceve in sogno sono interpretati come messaggi divini.

Per quanto riguarda, invece, i due sogni fatti da Giuseppe per il momento non si precisa la portata: non si da alcun giudizio se vengono da Dio o dalla sua fantasia.

Questo particolare rivela fin d’ora una nota di discrezione che è tipica di tutta la vicenda: Dio opera nel nascondimento e, nell’immediato, senza farsi notare; solo alla fine ci si renderà conto che era Lui a guidare la storia.

Riguardo ai sogni, vale la pena ricordare la lezione che qualche secolo più tardi offrirà il libro del Siracide. L’autore, Ben Sira, pur lasciando aperta la possibilità che Dio parli anche attraverso i sogni, invita, però, ad usare molta prudenza nei loro confronti.

[1]Speranze vane e fallaci sono proprie dell’uomo insensato, i sogni danno le ali agli stolti.

[2]Come uno che afferra le ombre e insegue il vento, così chi si appoggia ai sogni.

[3]Questo dopo quello: tale la visione di sogni, di fronte a un volto l’immagine di un volto.

[4]Dall’impuro che cosa potrà uscire di puro? E dal falso che cosa potrà uscire di vero?

[5]Oracoli, auspici e sogni sono cose vane, come vaneggia la niente di una donna in doglie.

[6]Se non sono inviati dall’Altìssimo in una sua visita, non permettere che se ne occupi la tua mente.

[7]I sogni hanno indotto molti in errore, hanno deviato quanti avevano in essi sperato.

[8]Senza menzogna si deve adempiere la legge, la sapienza in bocca verace è perfezione. (Sir. 34,1-8)

  Don Luigi Pedrini

09 Settembre 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 09 Settembe 2012

Carissimi Parrocchiani,

attingo la seconda considerazione che avevo lasciato in sospeso la volta scorsa dal v. 3 del cap. 37. In questo versetto troviamo una sottolineatura importante: Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli. La stessa sottolineatura ricompare subito dopo nel v. 4 per precisare che, proprio in ragione di questo ‘di più’ di amore, i fratelli nutrivano gelosia e invidia verso Giuseppe.

E’ tipico dell’invidia e della gelosia ‘misurare’ l’amore, cioé valutarlo semplicemente in base ad una logica quantitativa, come una questione di più o di meno. In realtà l’amore vero sfugge a questa logica. Caratteristica dell’amore è di amare in modo personale e, proprio perché personale, di amare ciascuno in modo diverso. Dio ama in modo personale e dà a ciascuno l’amore necessario.

S. Ignazio di Loyola, alla fine di una sua bella preghiera che ha inserito nel libro degli Esercizi Spirituali, si esprime così: “Dammi il tuo amore e la tua grazia e mi basta”, volendo dire che quando io so di essere amato dal Signore non manco più di nulla. Cosa importa, allora, se Dio ama in modo diverso il mio fratello, la mia sorella? Io ho l’amore che basta.

Dietro l’invidia e la gelosia si nasconde in fondo una non accettazione dell’amore personale con cui si è amati da Dio, la quale conduce, poi, al calcolo che quantifica l’amore.

Giuseppe è amato in modo diverso da Giacobbe e riceve in famiglia un ‘di più’ di amore perché la vocazione a cui è chiamato necessita di un ‘di più’ di amore. Egli è colui che opererà la riconciliazione di tutti e tre i rapporti compromessi dal peccato (il rapporto con Dio, con i fratelli, con la terra) ed è proprio in vista di questa vocazione che Giuseppe riceve da Giacobbe l’amore necessario per compiere la sua missione.

È avvenuto così anche per Pietro. Egli chiamato a un compito di unità nella Chiesa deve fare l’esperienza di essere amato da Gesù, perché ricco di un ‘di più’ di amore sia in grado di offrire un ‘di più’ di amore a Gesù e ai fratelli: “Mi ami tu più di costoro?… Pasci i miei agnelli” (Gv 21,15ss).

Ognuno riceve da Dio quel ‘di più’ di amore che gli è necessario per realizzare la propria vocazione. E l’amore che Dio ci dà è un amore senza misura. Lo fa notare, non senza meraviglia, san Paolo. Egli, dopo aver considerato il fatto che Dio per amore nostro è stato disposto a ‘perdere’ sulla croce il proprio Figlio, il Figlio amato, fa questa considerazione: “Se Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, davvero grande deve essere il suo amore per noi” (Rm 8,31-39).

In questo modo il Signore ci aiuta a estirpare dal cuore ogni sentimento di gelosia e di invidia per far posto al dono della fraternità. Il fatto che il mio fratello sia amato con un ‘di più’ di amore non deve indurmi a pensare ad una sottrazione d’amore nei miei confronti, ma diventa per me l’occasione per rendermi ancora più consapevole di quel ‘di più’ di amore personale che anch’io ho ricevuto e continuamente ricevo dalle mani del Signore.

Don Luigi Pedrini

 

02 Settembe 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 02 Settembe 2012

Carissimi Parrocchiani,

sostiamo ancora sui versetti già commentati per fare due considerazioni. La prima considerazione ci rimanda al v. 4 del cap. 37: I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente. In questo versetto scopriamo con sorpresa che sono riuniti insieme amore e odio: da una parte, l’amore di Giacobbe; dall’altra, l’odio dei dieci fratelli verso Giuseppe.

Questa singolarità ci conduce ad una constatazione sorprendente: l’amore, paradossalmente, può scatenare l’odio. L’amore che Giuseppe riceve dal padre lo rende odioso agli occhi dei fratelli.

In questo paradosso i commentatori cristiani hanno visto un’anticipazione di Gesù. Infatti, l’incapacità dei fratelli nel parlare amichevolmente a Giuseppe si ritrova anche in Gesù, il figlio prediletto del Padre. Anch’egli odiato e alla fine condannato a morte perché i suoi avversari non accettano di riconoscere in lui il Figlio di Dio, il Figlio prediletto (Mc 14,61-64). Gesù, avendo fatto sempre del bene a tutti, non era reo di alcuna colpa che giustificasse una condanna simile; La sua morte è stata il frutto di una condanna del tutto arbitraria. Gesù stesso ha dichiarato: “Mi hanno odiato senza ragione” (Gv 15,25).

Dunque, sia nella vicenda di Giuseppe, sia nella vicenda di Gesù l’amore, anziché suscitare una risposta d’amore, ha provocato un reazione d’odio. È una stranezza alla quale neanche l’amore di Dio si sottrae. Anzi, questo paradosso si evidenzia ancora di più quando in gioco c’è l’amore di Dio. Mi spiego: l’amore di Dio nei nostri confronti non può che volere per noi il bene, la verità; è un amore che non scende a patti con la menzogna e con il male. Proprio perché non si arrende di fronte al male, ma tutto vuole abbracciare e illuminare, ecco che il male si evidenzia e si ribella. È così che l’amore può condurre all’odio.

In tutto questo mi pare di poter cogliere un insegnamento importante per noi. È illusorio pensare che la testimonianza all’amore che esige la vita cristiana in quanto vita nello spirito di Cristo, che è spirito d’Amore, possa suscitare automaticamente l’amore. Amando si ottiene una risposta d’amore in chi ha un cuore già purificato. Là dove non c’è un cuore limpido, purificato, non si dà immediatamente una risposta d’amore e si rende necessario, in primo luogo, un cammino di purificazione che può passare anche attraverso fasi di ribellione e di odio. L’amore, tuttavia, è capace di vincere tutto questo, facendosene carico e pagando di persona.

I santi confermano tutto questo. Essi, pur testimoniando l’amore verso tutti, hanno incontrato, non di rado e proprio per questo, l’odio del mondo. E, tuttavia, hanno vinto il male, perché l’hanno espiato in se stessi l’hanno vissuto come partecipazione alla croce di Cristo.

Così, la vicenda di Giuseppe ci ricorda che non dobbiamo meravigliarci se nell’amare riceviamo non approvazioni gratificanti, ma critiche e anche opposizioni. La via dell’amore non passa attraverso scorciatoie facili, ma domanda un lungo e paziente cammino di purificazione.

Don Luigi Pedrini

 

26 Agosto 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 26 Agosto 2012

[4]I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente.

 Carissimi Parrocchiani,

ci soffermiamo ora su questo versetto che riferisce la delicata situazione che viene a crearsi tra i figli di Giacobbe.

Stando al testo, la predilezione di Giacobbe per Giuseppe, resa ancora più manifesta dalla veste che gli fa indossare, diventa per gli altri figli qualcosa di irritante e di insopportabile. Ciò che irrita i fratelli non è evidentemente la veste in sé, ma ciò che essa sottintende: la veste lussuosa in fondo incrina l’uguaglianza tra i fratelli e innalza uno al di sopra degli altri.

Il risultato che ne segue è un atteggiamento di avversione: “lo odiavano”. Così traduce la CEI, alludendo al sentimento di rifiuto che i fratelli nutrono verso Giuseppe. L. A. Schokel offre un’altra traduzione (“gettavano odio”), perché secondo lui il verbo allude a qualcosa di più di un semplice sentimento. Propriamente, ad un atteggiamento interiore che è già anticipo di un’azione conseguente. Questo odio è già gravido dei germi del male che, poi, esploderà.

Nel concreto, per ora, questa avversione si esprime all’esterno nella negazione del saluto: negano la “shalom”, la pace. “Non lo salutavano nemmeno”: questo è più precisamente quello che significa l’espressione: non potevano parlargli amichevolmente.

Va tenuto presente che, allora, il saluto aveva una grande importanza e che la negazione poteva significare la rottura della comunione. Da questo punto di vista, il versetto vuole dire che nella casa di Giacobbe si è creata una situazione di divisione, di frattura. È una ferita che si apre e che si approfondirà sempre di più: solo molto tempo, quando avverrà la riconciliazione tra fratelli, essa si rimarginerà.

C’è da dire che il maggior peso di responsabilità di questa situazione cade su Giacobbe che, senza rendersene conto, provoca l’odio degli altri figli nei confronti del figlio prediletto. Tuttavia, chi patisce maggiormente e più immediatamente le conseguenze di questa divisione è Giuseppe. Infatti, i fratelli diventano nemici suoi, non nemici del padre.

Accade spesso che l’odio di chi si sente trattato ingiustamente si diriga non contro chi ha concesso i privilegi ritenuti ingiusti, ma contro chi è stato privilegiato (la vicenda di Caino e Abele lo insegna molto bene).

 

Don Luigi Pedrini

 

 

19 Agosto 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 19 Agosto 2012

Carissimi Parrocchiani,

dopo la pausa dovuta alle ferie estive, riprendiamo le fila del nostro discorso. Ci siamo già soffermati sul v. 2 del capitolo 37 della Genesi che offre un primo spiraglio sulla vita interna della famiglia di Giacobbe; ora, consideriamo i versetti successivi che riferiscono un ulteriore elemento di tensione capace di creare tra i figli di Giacobbe una dolorosa divisione.

 [3]Israele (= è il nuovo nome che Dio ha dato a Giacobbe) amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche.

 La tensione è generata dal fatto che Giuseppe è tra tutti il figlio più caro a Giacobbe, tanto da essere oggetto di un amore preferenziale da parte del padre.

Compare qui il tema della preferenza paterna che, peraltro, già abbiamo incontrato nei capitoli precedenti: pensiamo ad Abele ‘preferito’ da Dio rispetto a Caino; ad Esaù preferito da Isacco rispetto a Giacobbe. Dunque, qui riappare lo stesso tema: Giacobbe predilige Giuseppe tra tutti i suoi figli.

Il testo spiega anche la ragione: Giuseppe “era il figlio avuto in vecchiaia”. E’ una ragione che ha una sua plausibilità: effettivamente, l’esperienza attesta che il padre ha un rapporto speciale con il bambino che gli viene partorito in un tempo in cui la vita comincia a declinare. Tuttavia, questa spiegazione non soddisfa del tutto. Infatti, si potrebbe obiettare che per sé questo dovrebbe chiamare in causa, a maggior ragione, Beniamino, essendo l’ultimo figlio avuto da Giacobbe.

Il testo precisa, inoltre che l’amore preferenziale del padre si è reso manifesto in una distinzione significativa: mentre il resto dei fratelli indossava abiti da lavoro, Giuseppe indossava una veste con le maniche lunghe che gli arrivavano fino ai polsi e con l’orlo che giungeva fino ai piedi. Stando all’indicazione di alcuni testi biblici – come ad esempio 2 Sam. 13,18 – secondo i quali la veste lunga era l’abito proprio della principessa o comunque di una persona di alto grado, possiamo affermare che Giuseppe vestiva in casa sua come un principe. Dobbiamo aggiungere che questa veste fa qui, per la prima volta, la sua comparsa e svolgerà, all’interno di tutta la vicenda, un ruolo molto importante.

Dunque, Giacobbe fa questo regalo al figlio prediletto, un regalo che, chiaramente, tende a innalzare Giuseppe al di sopra degli altri fratelli, non senza ripercussioni al loro interno, come testimonia il versetto immediatamente successivo.

 [4]I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente.

 Ma su questo versetto rifletteremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

05 Agosto 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 05 Agosto 2012

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo iniziato il mese di agosto, tempo tradizionalmente legato a qualche pausa di riposo che ci concediamo dopo un anno di attività. Ho pensato, allora, di lasciare provvisoriamente il commento alla vicenda di Giuseppe per fare qualche considerazione sul tempo delle ferie.

Ho letto che quest’anno il 50 % degli italiani rinuncerà ad andare in vacanza. Questo è, chiaramente, un sintomo della crisi in atto che si fa sentire pesantemente sul bilancio familiare.

Tuttavia, la rinuncia ad andare via non dovrebbe impedire di concedersi ugualmente un tempo di “vacanza”. Condivido pienamente quanto scrive Gian Domenica Bagatin, psicologo e psicoterapeuta a Trieste: “Vacanza è riposo, silenzio, meditazione. Più che momenti liberi, questi spazi sono un’esperienza in cui ciascuno di noi, nel ritmo frenetico del luogo di lavoro o nel momento del ripetersi dei gesti quotidiani, riesce a trovare il bandolo della propria esistenza, a immaginare e sognare nuovi paesaggi”. La vacanza è, dunque, quel momento che dovrebbe permettere di vivere le azioni quotidiane, spesso ripetitive e talvolta monotone, in modo non concitato e inquinato dalla preoccupazione del “fare”, ma “riposato”, con freschezza e creatività.

È possibile anche rimanendo nel proprio ambiente mettere in atto qualche piccolo accorgimento con cui darsi un altro passo che consenta di vivere il quotidiano in una dimensione più tranquilla, che aiuta a stare meglio con se stessi e, quindi, a capire meglio quello che si sta vivendo. Diceva Hetty Hillesum nel suo diario: “A volte siamo così distratti e sconvolti da ciò che ci capita che poi fatichiamo a ritrovarci. Eppure si deve. Non si può affondare in ciò che ci circonda”.

In questi giorni una persona amica mi ha mandato una riflessione sulle vacanze. Già il titolo è significativo: “Dieci consigli utili per una vacanza da cristiani”: vuole richiamare che anche in vacanza il cristiano porta con sé la sua identità. È tempo di stacco dalla vita usuale, ma non tempo di evasione e di disimpegno in rapporto a ciò che è costitutivo della nostra persona.

Tra questi dieci consigli mi sono ritrovato in particolare nell’invito a concedersi in questo tempo qualche buona lettura, mettendosi in ascolto anche di un libro che edifichi lo spirito; inoltre, l’invito a mettere in programma – se appena possibile – la visita ad una cattedrale o a un santuario; come pure, l’invito a non dimenticare il Signore in questo periodo in cui finalmente cade l’obiezione del “non ho tempo” che qualche volta affiora durante l’anno a motivo delle tante occupazioni. Pure degno di nota è la citazione del consiglio che don Bosco dava ai suoi ragazzi, un consiglio lapidario, ma per questo anche molto incisivo: “Stai allegro, divertiti, ma non peccare!”. E da ultimo ho trovato saggio il consiglio di avere attenzione anche per gli altri, specialmente per chi più ci è vicino. Se è vero che le ferie sono l’occasione per concedersi il meritato riposo, non per questo devono diventare un tempo in cui si pensa solo a se stessi. Ricordava giustamente san Josemaria Escrivà che “la santità e l’autentico desiderio di raggiungerla non si concede né soste, né vacanze”. In questo orizzonte a tutti l’augurio di “Buone Ferie”!

Don Luigi Pedrini

 

29 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 29 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

prendendo ora in considerazione la seconda parte del v. 2 del capitolo 37 della Genesi possiamo rivolgere un primo sguardo sulla vita interna della famiglia di Giacobbe.

La prima parte del versetto – Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Essendo ancora giovane, stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre – allude ad un clima di unità e fratellanza che regna tra i figli di Giacobbe. Si ha l’impressione di un quadro di vita pastorale sereno nel quale i fratelli stanno insieme in modo amichevole.

A diciassette anni Giuseppe è un pastorello impegnato nel pascolo del bestiame insieme con i fratelli. Tutti svolgono lo stesso lavoro: sono pastori. Siamo, dunque, di fronte ad un’economia familiare unificata, che viene ad interrompere la differenziazione di mestiere che era presente, invece, nelle famiglie precedenti (cfr: Caino, il cacciatore e Abele, il pastore; Esaù, il cacciatore e Giacobbe, il pastore).

Il versetto riferisce che Giuseppe “stava” con i figli di Bila e di Zilpa. In realtà, sarebbe più corretto tradurre: “Giuseppe aiutava i figli di Bila e di Zilpa”. Infatti, il testo vuole evidenziare che Giuseppe si colloca su un piano di inferiorità rispetto ai fratelli: la sua giovane età fa sì che egli svolga dei compiti secondari. Egli è ancora un apprendista pastore, un ‘aiutante’ (na’ar).

Ma ecco l’ultima parte del versetto 2: Ora Giuseppe riferì al loro padre di chiacchiere maligne su di loro.

Queste parole rivelano un aspetto un po’ singolare della personalità di Giuseppe. Se da una parte è un giovane ancora inesperto, tuttavia, possiede una certa scioltezza o – forse più giustamente – ingenuità nel parlare. Così, diventa un informatore di notizie presso il padre.

Va notato che la traduzione ufficiale della Chiesa italiana (CEI) parla di “chiacchiere maligne su di loro”. Un autorevole commentatore – A. Schokel – preferisce usare l’espressione “cattive informazioni”, precisando che non devono essere intese come diffamazioni e ancor meno come calunnie.

Ad ogni modo, il testo sembra propenso a valutare il parlare di Giuseppe come qualcosa di inopportuno, frutto di ingenuità giovanile, pur essendo un parlare libero da cattive intenzioni. Sta di fatto che questo particolare introduce tra i fratelli un elemento di tensione.

Don Luigi Pedrini

23 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 23 Luglio 2012

[1]Giacobbe si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero, nel paese di Canaan. Giuseppe e i suoi fratelli

[2]Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane e stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre. Ora Giuseppe riferì al loro padre i pettegolezzi sul loro conto.

[3]Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche.

[4]I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente.

Carissimi Parrocchiani,

dopo le necessarie premesse introduttive, è ora tempo di introdurci nella storia di Giuseppe. I primi quattro versetti del cap. 37 fanno luce sul contesto da cui essa prende avvio. Anzitutto, riferiscono il luogo in cui vive la famiglia di Giacobbe e indicano in Giuseppe il nuovo protagonista degli avvenimenti; in secondo luogo, aprono una finestra sulla vita interna di questa famiglia.

Quanto al luogo si precisa che Giacobbe si stabilisce nel paese di Canaan, il paese in cui Abramo e Isacco avevano soggiornato da nomadi. Ora, Giacobbe vi risiede in modo stabile. Dunque, la terra di Canaan che fino ad allora era stata per i patriarchi una terra di passaggio, diventa, da questo momento, una terra stabile. D’ora innanzi, la vita dei patriarchi, da nomade, si fa sedentaria.

Le parole scarne – Giuseppe e i suoi fratelli. Questa è la storia della discendenza di Giacobbe – lasciano intendere che d’ora innanzi l’attenzione si concentra interamente sulla famiglia di Giacobbe. L’attenzione su Giacobbbe e il corrispettivo silenzio su Esaù e la sua famiglia stanno a dire che Giacobbe è l’erede patriarcale che porta avanti legittimamente la discendenza di Abramo e la promessa di benedizione ricevuta da Dio.

Inizia qui la storia di questa famiglia: è lei il soggetto che sta sullo sfondo del dipanarsi dei vari avvenimenti. Un noto biblista (H. Gunkel), constatando che tutto il racconto si costruisce attorno a questo nucleo familiare, ha proposto di intitolare i capitoli della Genesi che vanno dal 37 al 50 come “storia di una famiglia”. A rigor di termini, questa proposta appare un po’ eccessiva, perché poi nel testo ci sono anche degli spezzoni di racconto che esulano da questo filone (come, ad esempio, il racconto della seduttrice che si vendica o di Giuseppe innocente messo in carcere e, poi, liberato…). E, tuttavia, ha una sua pertinenza: i cap. 37-50 sono anche una storia di famiglia, ci parlano di una famiglia lacerata dall’invidia e dall’odio, tragicamente divisa, che attraversa dure prove e tribolazioni e che, alla fine, giunge ad un’inattesa riconciliazione.

Circa la finestra aperta dai versetti 2-4 sulla situazione interna di questa famiglia vedremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

 

15 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 15 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

la settimana scorsa concludevo affermando che la storia di Giuseppe, anche se a uno sguardo immediato non appare, è tuttavia profondamente religiosa, al punto da poter affermare che proprio la fede in un Dio che anima ogni singolo avvenimento costituisce la ‘roccia’ del pellegrinaggio di fede di Giuseppe.

Due testi sono profondamente rivelatori al riguardo.

Anzitutto, Gen. 40,8 dove compare per la prima volta sulla bocca di Giuseppe la menzione di Dio. Giuseppe si trova in prigione; nella cella con lui ci sono il coppiere e il panettiere del faraone; tutti e due fanno un sogno e sono in angustia perché non sanno interpretarne il significato. Giuseppe interviene e dà la spiegazione dei due sogni. Ma ciò che a noi interessa è l’affermazione iniziale di Giuseppe. Dichiara: Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni? Queste parole testimoniano che Giuseppe ha acquisito la sapienza di interpretare i sogni, di interpretare cioè il vissuto interiore di una persona, di cui il sogno è espressione. Tuttavia, Giuseppe riconduce questa sapienza a Dio, il vero sapiente che conosce il cuore dell’uomo e che può aiutare ciascuno a penetrare il cuore, a capire chi siamo e dove stiamo andando.

Più importante e rivelativo è Gen. 45,3-8 che riferisce le parole di Giuseppe nel momento in cui si fa riconoscere dai fratelli. Nulla nel contesto lascerebbe prevedere una rivelazione del genere. I fratelli sono da Giuseppe, colui che in Egitto è secondo soltanto al faraone, gli si prostrano davanti e devono rispondere all’accusa di furto della coppa di Giuseppe, che è stata scoperta nella sacca di Beniamino. L’accusa di Giuseppe sembra il preludio di una gravosa punizione. E, invece, la tensione si scioglie improvvisamente. Giuseppe manda via i servi e piangendo, si fa conoscere a loro ed esclama: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello… Dio mi ha mandato qui per conservarvi in vita”. Per tre volte Giuseppe afferma che è stato Dio a “mandarlo” in Egitto al fine di beneficare i suoi familiari: Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio…

“Dio mi ha mandato”: dunque, per Giuseppe, determinante in tutta la sua intricata e sofferta vicenda è l’iniziativa di Dio. Il punto prospettico dal quale egli rilegge l’intera vicenda non è la tresca meschina messa in atto dai fratelli, ma l’iniziativa di Dio che si è servito di quella triste vicenda per attuare un disegno di provvidenza che abbraccia tutta la sua famiglia e, ultimamente, il popolo di Israele.

Giuseppe vive di questa roccia. Da qui scaturisce in lui la capacità di non censurare nulla della sua storia, di non rimuoverla, ma di rileggere ogni avvenimento all’interno di un disegno armonico e provvidente. Per questa strada egli giunge alla scoperta fino di quel ‘nome’ che Dio ha in serbo per lui, cioè della sua ‘vocazione personale’: quella di restituire i suoi fratelli al dono della fraternità riconciliata.

Don Luigi Pedrini

 

08 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 08 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

c’è ancora una premessa su cui è importante soffermarci prima di entrare nella vicenda di Giuseppe.

Al riguardo, prendo le mosse da un testo che si trova nel vangelo di Matteo nel quale Gesù, concludendo un lungo insegnamento impartito ai discepoli – il cosiddetto ‘Discorso della montagna’ – afferma: Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la casa sulla roccia” (Mt 7,24).

Alla luce di queste parole con cui Gesù ricorda che ogni cammino di fede per reggere deve edificarsi sulla roccia, ci domandiamo: qual’è la roccia sulla quale si è edificato il pellegrinaggio di Giuseppe e che gli ha consentito di essere non un ‘fuggitivo’, ma un vero ‘pellegrino’, uno che sapeva da dove la sua vita era partita, dove voleva andare, dove in sostanza la sua vita trovava consistenza e stabilità? Esiste, davvero, in questa vicenda – che è segnata da contrasti fortissimi e da inaspettati cambi di scena al limite dell’assurdità – questa roccia che l’ha riscattata dalla frammentarietà e dall’assurdità, l’ha resa sensata e unitaria, facendo di Giuseppe il credente che vive interamente appoggiato a Dio e che interpreta la sua drammatica vicenda a partire da Lui? Se esiste, dove affiora? Come viene descritta?

Non è facile rispondere a queste domande, non solo perché la storia di Giuseppe è complessa, ma anche perché – come hanno fatto notare alcuni esegeti – essa appare quasi una “storia laica”. Così, si legge in un commentario di questa vicenda: “La storia di Giuseppe si distingue per una mondanità rivoluzionaria, una mondanità che descrive tutto l’ambito della vita umana, tutte le sue sublimità e profondità con un realismo per niente moralistico” (Negretti – Westermann – Von Rad, Gli inizi della nostra storia, Torino, Marietti, 1974, p. 138).

In effetti, in questa storia non troviamo visioni di Dio, né dialoghi, né promesse, come nella vicenda di Abramo; non c’è nessuna apparizione di angeli o descrizioni di esperienze di preghiera, come nella vicenda di Giacobbe. Non troviamo, neppure, i ‘gesti’ di preghiera presenti nella vita di Abramo (che costruisce in diverse occasioni un altare per il Signore); e anche nella vita di Giacobbe (che innalza una stele per far memoria di Dio).

Certamente, questa assenza appare sorprendente, tanto più se si tiene conto che non sono mancati nella vicenda di Giuseppe momenti veramente drammatici (come quando Giuseppe si ritrova abbandonato in fondo ad un pozzo, oppure in prigione).

Tuttavia, la storia di Giuseppe è profondamente religiosa: è vero che in essa si parla poco di Dio, ma la ragione è che Dio è percepito come una presenza che anima ogni avvenimento e che avvolge tutto. Proprio questa fede in un Dio onnipresente e fedele costituisce la roccia del pellegrinaggio interiore di Giuseppe. Ne danno conferma due testi particolarmente rivelativi. Ma su questo ci soffermeremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini