8 Gennaio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 8 Gennaio 2012

Carissimi Parrocchiani,

dopo la pausa natalizia riprendiamo la vicenda di Giacobbe. L’abbiamo lasciato in preda alla paura, al pensiero che il fratello Esaù, che non vede da parecchi anni, gli sta andando incontro con una scorta di quattrocento uomini. In questa situazione drammatica, la scelta di Giacobbe è sorprendente: non più come in passato il ricorso ad un’astuzia, ma il ricorso alla preghiera.

Poi Giacobbe disse: “Dio del mio padre Abramo e Dio del mio padre Isacco, Signore, che mi hai detto: Ritorna al tuo paese, nella tua patria e io ti farò del bene,  io sono indegno di tutta la benevolenza e di tutta la fedeltà che hai usato verso il tuo servo. Con il mio bastone soltanto avevo passato questo Giordano e ora sono divenuto tale da formare due accampamenti. Salvami dalla mano del mio fratello Esaù, perché io ho paura di lui: egli non arrivi e colpisca me e tutti, madre e bambini! Eppure tu hai detto: Ti farò del bene e renderò la tua discendenza come la sabbia del mare, tanto numerosa che non si può contare” (32,11-13)

È una preghiera fatta con umiltà, ben diversa da quella fatta nella notte del sogno. Là si manifestava come un uomo fiducioso nelle proprie forze, al punto da avanzare quasi la pretesa di voler insegnare a Dio e di dettargli le sue condizioni. Ora, invece, in questa preghiera si manifesta come un uomo che ha preso coscienza del proprio limite di creatura. Infatti, si affida a Dio dicendogli: “Salvami”
Questa espressione “Salvami” – ha affermato recentemente Benedetto XVI – “è il grido dell’uomo di ogni tempo, che sentendo di non farcela da solo a superare difficoltà e pericoli” avverte il “bisogno di mettere la sua mano in una mano più grande e più forte…”.  Questo grido – continua Benedetto XVI – pone l’uomo in tutta verità davanti a Dio: infatti, “Dio è il Salvatore, noi quelli che si trovano nel pericolo. Lui è il medico, noi i malati” (Messaggio Urbi et Orbi, Natale 2011)
Dunque, Giacobbe prega in tutta verità e nella preghiera fa memoria della promessa di Dio: “Mi hai detto: ritorna al tuo paese… ti farò del bene e renderà la tua discendenza come la sabbia del mare”. È un particolare significativo perché sta a dire che ormai, per Giacobbe, conta solo questa luce che promana dalla promessa di Dio. Tutto il resto non conta più niente. Non conta più la ricchezza accumulata, il lavoro svolto, l’esperienza acquisita, i successi ottenuti. Anche la famiglia passa in secondo piano. Ciò che conta è il fatto che Dio gli ha detto: “ritornerai” e che farà brillare su di lui la sua benedizione. A questa promessa, che ormai sta diventando il filo conduttore della sua vita, Giacobbe si affida.
Il suo affidamento si esprime con parole scarne e semplici. Si potrebbe dire che è l’essenzialità e la semplicità di un uomo che sta muovendo i primi passi della sua esperienza di Dio e, quindi, fatica ad esprimersi in modo compiuto. Ma forse, più verosimilmente, la sua è la fatica tipica del credente che, davanti all’esperienza autentica di Dio, sperimenta l’inadeguatezza delle parole umane per esprimere ciò che sta vivendo.

 

Don Luigi Pedrini

18 Dicembre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 18 Dicembre 2011

Mentre Giacobbe continuava il viaggio, gli si fecero incontro gli angeli di Dio. Giacobbe al vederli disse: “Questo è l’accampamento di Dio” e chiamò quel luogo Macanaim (Gen 32,2-3)

Carissimi Parrocchiani,

accennavo l’altra volta ad un’inaspettata presenza degli angeli sul cammino di Giacobbe che sta ritornando alla sua casa natale e si prepara all’incontro con il padre anziano Isacco e col fratello Esaù.
Cosa significa questo particolare? Sappiamo che gli angeli sono i messaggeri di Dio, coloro cioè  che aiutano l’uomo a leggere gli eventi all’interno della benevolente e misteriosa disposizione di Dio. Il fatto che Giacobbe “veda” gli angeli sul suo cammino sta a dire che egli è un uomo che va aprendosi alle illuminazioni di Dio e, di conseguenza, è in grado di percepire messaggi nuovi. Ora che i suoi occhi e il suo cuore si sono aperti, tutto è per lui portatore di un messaggio. Da quando si è messo in cammino, le persone che incontra, la terra che attraversa, il cielo che lo sovrasta, tutto parla un linguaggio nuovo. Giacobbe sta diventando un uomo “riflessivo” che, da adesso in avanti, non ha altro interesse se non quello di comprendere il messaggio che Dio vuole offrirgli.

Ma torniamo alla nostra vicenda. Ora Giacobbe è in procinto di rientrare nella sua terra natale. Pensando al prossimo incontro con il fratello, col quale ormai da tanti anni non ha più alcun contatto, e considerando i cattivi rapporti con cui si erano lasciati quando era fuggito dalla casa paterna, si rende conto che questo incontro merita un’attenta preparazione.

Poi Giacobbe mandò avanti a sé alcuni messaggeri al fratello Esaù, nel paese di Seir, la campagna di Edom. Diede loro questo comando: “Direte al mio signore Esaù: Dice il tuo servo Giacobbe: Sono stato forestiero presso Làbano e vi sono restato fino ad ora (Gen 32,4-5).

Con umiltà e rispetto Giacobbe fa i suoi preparativi. Rinuncia ad ogni presunzione e, contrariamente alla sua indole, ora non intende più fare alcun ricorso ad astuzie e a sotterfugi.
Ma ecco che cosa accade:

I messaggeri tornarono da Giacobbe, dicendo: “Siamo stati da tuo fratello Esaù; ora egli stesso sta venendoti incontro e ha con sé quattrocento uomini”. Giacobbe si spaventò molto e si sentì angosciato; allora divise in due accampamenti la gente che era con lui, il gregge, gli armenti e i cammelli. Pensò infatti: “Se Esaù raggiunge un accampamento e lo batte, l’altro accampamento si salverà”.

La notizia crea grande turbamento nel cuore di Giacobbe e una profonda angoscia si impadronisce di lui.

Don Luigi Pedrini

11 Dicembre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 11 Dicembre 2011

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Giacobbe che, in procinto di riprendere la via del ritorno nella sua terra natale, chiede alle mogli se sono disposte a lasciare il padre Labano e a seguirlo. Ed ecco la risposta e il seguito degli eventi.

Rachele e Lia gli risposero:

“Abbiamo forse ancora una parte o una eredità nella casa di nostro padre? Non siamo forse tenute in conto di straniere da parte sua, dal momento che ci ha vendute e si è anche mangiato il nostro danaro? Tutta la ricchezza che Dio ha sottratto a nostro padre è nostra e dei nostri figli. Ora fà pure quanto Dio ti ha detto”.

Allora Giacobbe si alzò, caricò i figli e le mogli sui cammelli e condusse via tutto il bestiame e tutti gli averi che si era acquistati, il bestiame che si era acquistato in Paddan-Aram, per ritornare da Isacco, suo padre, nel paese di Cànaan.
Làbano era andato a tosare il gregge e Rachele rubò gli idoli che appartenevano al padre.
Giacobbe eluse l’attenzione di Làbano l’Arameo, non avvertendolo che stava per fuggire; così potè andarsene con tutti i suoi averi. Si alzò dunque, passò il fiume e si diresse verso le montagne di Gàlaad (Gen 31,14-21).

Dalle parole di Rachele e di Lia si comprende che i rapporti che avevano con il padre non erano dei migliori; accettano la proposta di Giacobbe e si mettono in cammino.
Tutto avviene in fretta, perché Giacobbe intende sfruttare i pochi giorni di vantaggio che ha sullo zio, impegnato ancora per un po’ di tempo nella tosatura del gregge. Il suo viaggio di Giacobbe, però, procede molto lentamente avendo con sé le mogli e i bambini e, così, lo zio, una volta informato, lo insegue e lo raggiunge quando ormai sta per entrare nella terra di Canaan.
Labano accusa il nipote ed egli si difende; chiede che gli siano restituiti gli idoli che teneva con sé, ma Rachele con l’inganno glielo impedisce. Alla fine, Giacobbe, approfittando della superstizione dello zio, riesce a convincerlo a non reagire in modo scomposto e, anzi, alla fine, zio e nipote si lasciano stringendo tra loro un patto di aiuto reciproco. Così, Labano ritorna a casa e Giacobbe, può, finalmente riprendere il suo cammino.
Da questo momento in avanti Giacobbe non è più l’uomo di prima e il testo biblico ne dà testimonianza. Infatti, a partire dal cap 32 ce lo descrive come un uomo che va assumendo i tratti dell’onestà e della religiosità; va progressivamente liberandosi dell’uomo vecchio che lo spingeva ad imbrogliare con le più abili astuzie e va rivestendo l’uomo nuovo che si rimette alla fedeltà di Dio. La voce che è tornata a farsi sentire ha acceso in lui il desiderio di andare fino in fondo, di veder chiaro nella sua vita e di riappropriarsi della sua storia. Si può dire che Giacobbe è un uomo che sta rinascendo: con uno sguardo nuovo sta imparando a guardare la vita. È significativo, al riguardo, il fatto che all’inizio del cap. 32 si parla, inaspettatamente, della presenza di angeli sul suo cammino. Ma di questo parleremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

20 Novembre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 20 Novembre 2011

Carissimi Parrocchiani,
nel cap. 29 inizia il racconto della permanenza di Giacobbe presso lo zio Labano. Così si legge al v. 1: Poi Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli orientali.
Lo zio l’accoglie prontamente e lo assume quale collaboratore nella custodia delle greggi. La capacità e l’intraprendenza di Giacobbe fanno sì che, ben presto, le condizioni economiche dello zio in poco tempo migliorino notevolmente.
Anche nella nuova situazione Giacobbe si dimostra l’uomo scaltro e intelligente che sa sempre trovare un rimedio ed escogitare espedienti di ogni tipo pur di ottenere il massimo rendimento. Come sempre, si muove con determinazione e senza scrupoli. Ne dà un saggio il giorno stesso in cui arriva presso lo zio: a motivo dell’utilizzo dell’acqua per abbeverare le greggi si era messo a questionare con i pastori del luogo e, poi, senza rispetto della regola che si erano dati proprio per garantire l’acqua a tutti in modo equo, fa abbeverare il gregge di Rachele, la figlia di Labano, giunta al pozzo in quel momento.
Lo zio rendendosi presto conto delle capacità del nipote, si preoccupa di trattenerlo il più possibile a lungo con sé. Accetta la sua richiesta di avere Rachele in sposa, ma in cambio gli chiede prima di lavorare presso di lui per sette anni. Giacobbe accetta; senonché, alla fine dei sette anni, lo zio gli dà in sposa Lia, sorella di Rachele, giustificandosi in forza degli usi del luogo secondo i quali era diritto della primogenita sposarsi prima della sorella minore. Tuttavia, gli assicura che manterrà la promessa fatta: avrà Rachele in moglie, ma dovrà lavorare ancora presso di lui per altri sette anni. Così, Giacobbe che con l’astuzia aveva beffato il fratello maggiore, ora si vede beffato a sua volta: l’astuzia si è presa gioco del suo amore.
Ad ogni modo, Giacobbe lavora con intelligenza, conclude affari, ottiene risultati sorprendenti. Le greggi diventano sempre più numerose e Labano, grazie a lui, si arricchisce notevolmente. Dopo parecchi anni, Giacobbe è ormai un uomo ben impiantato: ha avuto in moglie Lia, Rachele, da loro ha avuto figli: Lia, la moglie non amata, gli genera molti figli; Rachele, l’amata, solo dopo molti anni genera Giuseppe. Tra le due sorelle, però, scoppiano liti frequenti e Giacobbe deve continuamente mettere pace.
I rapporti con lo zio col tempo si incrinano. Labano riconoscendo nel nipote la causa della sua fortuna, cerca di sfruttarlo al massimo. Giacobbe, però, questa volta non si lascia più abbindolare da lui. Astutamente, trova il modo di costruirsi una fortuna tutta sua e al momento opportuno gli propone la divisione dei patrimoni. Lo zio vedendosi incapace di gestire da solo una fortuna economica  cresciuta a dismisura è costretto ad accettare. Ma precisa il testo biblico:
Giacobbe venne a sapere che i figli di Làbano dicevano:
“Giacobbe si è preso quanto era di nostro padre
e con quanto era di nostro padre si è fatta tutta
questa fortuna”.
Giacobbe osservò anche la faccia di Làbano e si accorse
che non era più verso di lui come prima.
Il Signore disse a Giacobbe:
“Torna al paese dei tuoi padri, nella tua patria e io sarò con te”.

Da questo momento Giacobbe matura la decisione di lasciare lo zio e ritornare a casa.

 

Don Luigi Pedrini

06 Novembre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 06 Novembre 2011

Carissimi Parrocchiani,

Concludevo l’altra volta dicendo che Giacobbe si è svegliato da quel sogno con la percezione che qualcosa di straordinario era avvenuto nella sua vita. I versetti che seguono nel testo biblico ne danno conferma.

Allora Giacobbe si svegliò dal sonno e disse:
<<Certo, il Signore è  in questo luogo e io non lo sapevo>>.
Ebbe timore e disse: <<Quanto è terribile  questo luogo!
Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo>>.

Giacobbe, pur essendo ai primi passi del suo cammino di fede, è convinto che Dio in quel sogno si è fatto presente nella sua vita e gli ha parlato. La sua reazione è di meraviglia grata e di timore riverenziale allo stesso tempo. Sono i due sentimenti che autenticano sempre la vera esperienza di Dio: l’uomo sperimenta la meraviglia di sentirsi oggetto, senza alcun merito, della cura amorevole di Dio e, insieme, il timore riverenziale di chi avverte la propria creaturalità, il proprio limite e anche il proprio essere peccatore. Di qui l’atteggiamento umile del timore pieno di riverenza e rispetto.

Alla  mattina presto Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la  eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel,  mentre prima di allora la città si chiamava Luz.
Giacobbe fece questo voto:

<<Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo
e mi darà pane  da mangiare e vesti per coprirmi, ]se ritornerò sano e salvo
alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra,
che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio;
di quanto mi darai io ti offrirò la decima>>.

Giacobbe compie un atto di culto: la pietra che, durante la notte, gli è servita da guanciale per dormire, viene trasformata in un piccolo altare (una “stele”) sulla quale fa la sua preghiera (il suo “voto”) al Signore.
Si tratta di un vero atto di affidamento, espresso in un linguaggio molto umano e, persino, utilitaristico. In sostanza Giacobbe fa questa promessa al Signore: “Se Dio farà il bravo con me, quando tornerò, lo sceglierò come Dio, sarà per me il Signore e gli costruirò un santuario”. Dunque, Giacobbe detta le condizioni a Dio, lo sollecita a comportarsi bene nei suoi confronti, dimostrando di vivere il suo rapporto con Lui in termini di do ut des: “Se Dio mi darà tanto, mi impegnerò anch’io a fare la mia parte”.
Giacobbe è davvero all’”A-B-C“ della sua esperienza di Dio. Tuttavia, una luce nuova è entrata nella sua vita e anche se sembra subito scomparire non appena si rimette in viaggio, in realtà, è solo velata: quello che è avvenuto in quella notte rimane sedimentato nel profondo della sua coscienza e, col tempo, lo porterà ad uno sguardo nuovo sulla vita.

 

Don Luigi Pedrini

30 Ottobre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 30 Ottobre 2011

Carissimi Parrocchiani,

continuando la nostra riflessione su Giacobbe, seguiamo ora il nostro patriarca nel suo viaggio verso Carran, il paese natale di Abramo e nel quale vivono ancora parenti di famiglia, tra cui lo zio Labano.

Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo,  dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose  come guanciale e si coricò in quel luogo (Gen 28,10-11)

“Capitò”: questa espressione lascia intendere che Giacobbe sta procedendo in modo avventuroso. Certo, ha una meta: Carran; tuttavia, la strada attraverso la quale arrivarvi è, invece, improvvisata. Si sta muovendo su strade inconsuete che potrebbero esporlo a qualsiasi pericolo. Giacobbe, in questo momento, è un uomo che ha perso ogni punto di riferimento e che è disposto a tutto, pur di raggiungere nell’immediato lo scopo che gli sta a cuore. È “capitato” in quel luogo “per caso” e lì passa la notte all’aperto, prende una pietra per guanciale e durante il sonno fa un sogno:

Fece un sogno: una scala poggiava sulla  terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo;
ed ecco gli angeli di Dio salivano e  scendevano su di essa.
Ecco il Signore gli stava davanti e disse:
<<Io sono il  Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco.
La terra sulla quale tu sei  coricato la darò a te e alla tua discendenza.
La tua discendenza sarà come la  polvere della terra e ti estenderai
a occidente e ad oriente, a settentrione e a  mezzogiorno.
E saranno benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni  della terra.
Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai;
poi ti farò  ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò
senza aver fatto tutto quello  che t’ho detto>>

(Gen 28,12-15)

Ciò che vive Giacobbe in quella notte è soltanto un sogno e, quindi – si direbbe – qualcosa di inconsistente. In realtà, Giacobbe, anche per la particolare situazione di distacco dalla sua terra che sta vivendo, ne è profondamente segnato. Nel sogno ha vissuto un’intensa esperienza religiosa, anche se, per il momento, non se ne rende pienamente conto. La sua formazione religiosa è ancora povera: non ha ancora la maturità necessaria per valutare l’importanza del sogno ed tradurre il suo significato in un linguaggio adeguato. Tuttavia, quanto gli è accaduto nel sonno in quella notte resterà per sempre impresso nella sua memoria, pronto nuovamente a riaffacciarsi ogni qual volta gli si presenterà l’occasione opportuna.
In quella notte, Giacobbe ha visto aprirsi su di lui il cielo e si è sentito dire da Dio parole cariche di promessa e di speranza: “Io sono con te”. Per il momento, la sua fede, ancora germinale, non è in grado di percepire la portata di queste parole. A differenza del nonno Abramo, non ha dimestichezza con esperienze religiose intense. Il suo rapporto con Dio, fino ad allora, era rimasto piuttosto esteriore e esposto al rischio – come nel caso della furberia con cui ha ottenuto la benedizione del padre – di una valorizzazione utilitaristica.
Nonostante questo, Giacobbe ha la percezione che qualcosa di straordinario è avvenuto nella sua vita e i versetti che seguono ne danno conferma. Ma li commenterò la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

16 Ottobre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 16 Ottobre 2011

Carissimi Parrocchiani,

poniamo oggi attenzione a Giacobbe che riceve da Isacco la benedizione legata alla primogenitura. Persuaso di averne diritto, con una disinvoltura che sorprende, Giacobbe attua la sua trama per ottenerla. Isacco è ormai nel pieno della sua paternità, i figli sono cresciuti e si preparano ciascuno a intraprendere la propria strada. Isacco, però, è anche un uomo sofferente: è diventato cieco e ha il cuore pieno di dispiacere  per le scelte matrimoniali di Esaù che egli non condivide.In questa situazione, reputa ormai giunto il tempo di dare a Esaù la benedizione che gli spetta in quanto primogenito. Lo chiama e, prima di benedirlo, lo invia a cercare la selvaggina, cibo a lui molto gradito. Giacobbe, però, grazie a Rebecca che cucina secondo il gusto del marito un animale preso dall’ovile, si presenta al padre con la “selvaggina”, dopo essersi camuffato in modo da risultare peloso come il fratello ed essere così scambiato per Esaù.
Così egli venne dal padre e disse: <<Padre mio>>. Rispose: <<Eccomi; chi sei tu,  figlio mio?>>. Giacobbe rispose al padre: <<Io sono Esaù, il tuo primogenito. Ho  fatto come tu mi hai ordinato. Alzati dunque, siediti e mangia la mia selvaggina,  perché tu mi benedica>>. Isacco disse al figlio: <<Come hai fatto presto a trovarla,  figlio mio!>>. Rispose: <<Il Signore me l’ha fatta capitare davanti>>. Ma Isacco gli  disse: <<Avvicinati e lascia che ti palpi, figlio mio, per sapere se tu sei proprio il mio  figlio Esaù o no>>. Giacobbe si avvicinò ad Isacco suo padre, il quale lo tastò e  disse: <<La voce è la voce di Giacobbe, ma le braccia sono le braccia di Esaù>>.  Così non lo riconobbe, perché le sue braccia erano pelose come le braccia di suo  fratello Esaù, e perciò lo benedisse. Gli disse ancora: <<Tu sei proprio il mio figlio  Esaù?>>. Rispose: <<Lo sono>>. Allora disse: <<Porgimi da mangiare della selvaggina  del mio figlio, perché io ti benedica>>. Gliene servì ed egli mangiò, gli portò il vino  ed egli bevve. Poi suo padre Isacco gli disse: <<Avvicinati e baciami, figlio mio!>>.  Gli si avvicinò e lo baciò. Isacco aspirò l’odore degli abiti di lui e lo benedisse:  <<Ecco l’odore del mio figlio come l’odore di un campo che il Signore ha benedetto. Dio ti conceda rugiada del cielo e terre grasse e abbondanza di frumento e di mosto. Ti servano i popoli e si prostrino davanti a te le genti. Sii il signore dei tuoi fratelli e si prostrino davanti a te i figli di tua madre. Chi ti maledice sia maledetto e chi ti benedice sia benedetto!>> (Gen 27,18-29).

Nell’episodio colpisce la determinazione con cui Giacobbe, va dritto verso l’obiettivo prefissato. Di fronte ai dubbi del padre prima conferma la sua falsa identità; poi, dichiara che grazie al Signore ha potuto trovare in fretta la selvaggina. C’è da notare che il nome di Dio risuona sulle labbra di un uomo che sta agendo con inganno e ne sta facendo un utilizzo strumentale. È significativo che da questo momento il nome del Signore scompare per molto tempo dal testo: Dio è stato nominato invano e ora è come se si ritirasse.
Veramente, il cammino di Giacobbe è diverso da quello di Abramo e anche di Isacco. Abramo lo si vede in continuo dialogo con Dio, desideroso di obbedire alla Parola; Isacco ama il raccoglimento e il silenzio; Giacobbe, invece, è uno che, agli inizi, non mette in primo piano il dialogo con Dio; preso dai calcoli, ricorre a Dio solo per servirsene. Così Isacco, ingannato, dà a Giacobbe la sua benedizione. Poco dopo, ritornando Esaù, scoprirà l’inganno e, tuttavia, non ritratterà quanto accaduto. Giacobbe, con grande dispiacere di Esaù, è ormai il “benedetto”.

Don Luigi Pedrini

09 Ottobre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 09 Ottobre 2011

Carissimi Parrocchiani,

riprendiamo la vicenda di Giacobbe, ponendo attenzione a uno degli episodi che maggiormente hanno segnato il suo cammino e che è rivelativo della sua personalità umanamente astuta, ma di un’astuzia che il Signore, col tempo, purificherà nell’umiltà.

Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra di lenticchie;
Esaù arrivò dalla  campagna ed era sfinito.
Disse a Giacobbe: <<Lasciami mangiare un pò di questa  minestra rossa, perché io sono sfinito>>
Per questo fu chiamato Edom.  Giacobbe disse: <<Vendimi subito la tua primogenitura>>.
Rispose Esaù: <<Ecco  sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?>>.
Giacobbe allora disse:  <<Giuramelo subito>>.
Quegli lo giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe (Gen 25,29-33).

Tutto avviene in modo repentino: Esaù è oppresso da una grande stanchezza e Giacobbe, approfittando del momento propizio, quasi per gioco, si fa cedere la primogenitura.
Sembra uno scherzo: l’impressione è che Esaù, in questo momento, non si renda conto veramente di ciò che sta avvenendo e, in ogni caso, non percepisca la portata della richiesta del fratello. In questa maniera egli dimostra una certa superficialità di carattere che non gli permette di apprezzare come meriterebbero i doni che possiede e, nel caso specifico, la primogenitura.
Il testo non si esime dal giudicare negativamente il comportamento di Esaù:

Giacobbe diede ad Esaù il pane e la minestra di lenticchie; quegli mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò. A tal punto aveva disprezzato la primogenitura (Gen 25,34).

Il giudizio è senza mezzi termini: Esaù ha sbagliato in quanto ha disprezzato il dono della primogenitura dimostrandosi un uomo inaffidabile: non ha saputo custodire se stesso. La sua scelta non merita alcuna scusante. L’aver sacrificato la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie è, veramente, una cosa meschina.
Questo particolare della vicenda mi ha portato a ricordare il rimprovero mosso da san Tommaso Moro a Richard, un uomo impegnato in politica che, pur di far carriera, ha sacrificato la sua dignità e onestà: “È valsa la pena per avere in cambio in cambio la contea del Galles?”, gli ha domandato san Tommaso Moro.  Come a dire: come si può mettere sullo stesso piano la propria dignità, la propria onestà di uomo e la contea del Galles? Dignità e onestà non hanno prezzo e non possono essere patteggiate.
Sta di fatto che Giacobbe si servirà della cessione della primogenitura da parte di Esaù per legittimare in certo modo la richiesta della benedizione paterna per sé riservata al primogenito.
In tempo opportuno riuscirà, ancora una volta con uno stratagemma, a ottenerla dal padre. Commenteremo questo episodio riferito nel cap. 27 la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

OMELIA SAGRA MADONNA DEL ROSARIO

OMELIA SAGRA MADONNA DEL ROSARIO

 2 ottobre 2011

Oggi, prima domenica di ottobre, 27° domenica del tempo fra l’anno, per noi è solennità: ricorre la Sagra della Madonna del Rosario. La Sagra nella vita di una parrocchia è un momento importante: ci aiuta a far memoria del nostro essere comunità di fede, famiglia nel Signore e, quindi, a ritrovare la nostra identità di parrocchia. In secondo luogo, la nostra Sagra, essendo dedicata a Maria come Vergine del Rosario, accresce la nostra devozione verso di Lei e ci stimola a invocarla con il Rosario.

Anche la prima lettura che abbiamo ascoltato era un invito forte a ripensare al nostro essere comunità di fede che appartiene al Signore. Dio si rivolge a Israele, sua comunità di fede chiamandola sua “vigna”, per dire che è il pezzo di terra che Egli ha riservato a sé e che con ogni cura ha lavorato (mi spiegavano tempo fa che tenere una vigna in ordine richiede un lavoro continuato. Io stesso ho visto la fatica che comporta il sottrarre qualche metro quadrato di terra alla montagna per trasformarla in vigna). Dio, infatti, intonando il suo cantico per la vigna ricorda la premura, la presa a cuore con cui si è dedicato alla sua vigna: “Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?”. Ma, poi, il cantico si trasforma in lamento: “Perché mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?”.

Nel Vangelo Gesù riprende sostanzialmente questo messaggio, aggiungendo, però, un complemento molto importante. Nella prima lettura Dio poneva la domanda. “Potevo fare di più di quello che ho fatto?”, qui nel Vangelo Gesù viene a dirci che Dio ha ritenuto di fare nei nostri confronti un gesto ulteriore di benevolenza. Dopo i profeti da Lui mandati e che noi abbiamo rifiutato, Dio ha voluto tenderci ancora la mano mandando il suo Figlio. Purtroppo, però, neppure questo è valso a smuovere il nostro cuore.

Davanti a queste letture mi veniva spontaneo aprire una domanda sulla nostra comunità. Mi domandavo: e se il Signore ora intonasse il cantico per noi sua vigna come sarebbe? Anche a noi potrebbe ricordare la cura che ci ha usato. Lo testimonia la radicata tradizione di fede che si avverte nella maggior parte delle famiglie. Ma dobbiamo anche chiederci: questa eredità che abbiamo ricevuto come la stiamo valorizzando? Crediamo ancora che questo patrimonio di valori che ha sostenuto prima di noi tante generazioni merita di essere salvaguardato? Sentiamo la responsabilità dover trasmettere questa eredità ai ragazzi, ai giovani, di educarli alla fede così come ci siamo impegnati a fare nel giorno in cui li abbiamo portati in chiesa davanti al Signore chiedendo per loro il battesimo?

Purtroppo, oggi il vento della secolarizzazione che progetta un vivere come se Dio non ci fosse, illudendoci di poter bastare a noi stessi, soffia ovunque e si fa sentire anche nella nostra piccola comunità. Eppure di Dio abbiamo bisogno. Magari, in un primo momento ci sembra di poter vivere anche senza, che le cose funzionino abbastanza bene anche senza di Lui. Ma, poi, ci si accorge che qualcosa manca, che questo mondo da solo è troppo piccolo per la sete di infinito che portiamo in noi.

Nei giorni scorsi il Papa nella sua visita in Germania parlando di Lutero e della sua riforma, ha ricordato che al centro della sua ricerca interiore c’era la questione di Dio: “Come posso credere in Dio e in un Dio misericordioso?”. E confessava la sua meraviglia per questa domanda di Lutero su Dio, perché oggi , anche tra i cristiani, sono pochi quelli che si interrogano seriamente su Dio e si chiedono veramente: “Ma Dio che cosa ha a che fare con la mia vita? E io come mi pongo davanti a Lui?”. Questa domanda che non vuole avere niente di intellettuale, ma vuole essere molto concreta, dovrebbe essere la domanda di ogni cristiano.

Dio che cosa c’entra con la mia vita? Per me ragazzo; per me giovane che mi preparo ad entrare nel cuore della vita; per me che ho una famiglia; per me che svolgo questo lavoro; per me che sono avanti negli anni; per me che sono segnato dalla precarietà della salute; per me che sto attraversando questo momento di prova?

Mettere il Signore al centro della nostra vita oggi richiede il coraggio di andare controcorrente: per questo è necessaria la preghiera. Solo la preghiera permette di sentire che il Signore non ci lascia soli in questo mondo, che possiamo – come diceva san Paolo nella seconda lettura – non angustiarci per nulla e in ogni circostanza fare presente a Dio le nostre richieste.

Nel tenere viva la preghiera valorizziamo – come ci ricorda la nostra Sagra – la bella preghiera del Rosario. “Dal Rosario – ho scritto nel Foglio settimanale – i cristiani di ieri (come quelli di oggi) hanno tratto (e possono trarre) forza per una vita sobria, nella fedeltà che esprime un profondo amore reciproco e una tale dimenticanza di sé in grado di farsi dono a tutti con pazienza nelle avversità”.

Affidiamo tutto questo al Signore per le mani di Maria, come ci esorta san Luigi Grignon de Montfort. Ci aiuti il Signore a calare la fede nella vita concreta di ogni giorno e a testimoniare il coraggio e la speranza che vengono dal Vangelo.

Vivendo così saremo davvero la vigna del Signore.

Diocesi di Pavia