26 Maggio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 26 Maggio 2013

[16]Allora il capo dei panettieri, vedendo che l’interpretazione era favorevole, disse a Giuseppe: “Quanto a me, nel mio sogno tenevo sul capo tre canestri di pane bianco [17] e nel canestro che stava di sopra c’era ogni sorta di cibi per il faraone, quali si preparano dai panettieri. Ma gli uccelli li mangiavano dal canestro che avevo sulla testa”.

[18] Giuseppe rispose e disse: “Questa è l’interpretazione: i tre canestri rappresentano tre giorni. [19] Fra tre giorni il faraone solleverà la tua testa e ti impiccherà a un palo e gli uccelli ti mangeranno la carne addosso”.

[20] Appunto al terzo giorno, che era il giorno natalizio del faraone, questi fece un banchetto per tutti i suoi ministri e allora sollevò la testa del capo dei coppieri e la testa del capo dei panettieri in mezzo ai suoi ministri. [21] Reintegrò il capo dei coppieri nel suo ufficio di coppiere, perché porgesse la coppa al faraone; [22] invece impiccò il capo dei panettieri, secondo l’interpretazione che Giuseppe aveva loro data. [23] Ma il capo dei coppieri non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò.

 

Anche il panettiere rivela, dunque, a Giuseppe il suo sogno. L’interpretazione, però, che ne riceve non è favorevole, così come era avvenuto per il coppiere. In effetti, le cose vanno proprio secondo le parole di Giuseppe.

Quello che qui merita di essere rimarcato è il finale di questa vicenda. Ci è riferito dal v. 23: Ma il capo dei coppieri non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò.

Questa annotazione amara, che trae efficacia proprio dalla sua brevità, mette in guardia dà un’eccessiva fiducia nell’amicizia. Essa rispecchia bene certi insegnamenti sapienziali che invitano a non dare credito agli amici con troppa facilità.

Giuseppe, in questo modo, conosce un terzo grosso scacco. Dopo la prova di vedersi rifiutato dai fratelli; dopo la prova di un’ingiusta condanna, nonostante la sua onestà; ora, la pungente delusione dell’amicizia.

Pungente perché – annota il Card. Martini – “le delusioni dell’amicizia sono forse le più cocenti, anche se sono le meno apparenti (spesso rimangono nascoste e conosciute solo dagli interessati), e anche le meno sensibili (nel senso che non comportano una decadenza fisica: le cose vanno avanti all’esterno come prima”. In cambio, però, “le delusioni dell’amicizia sono molto purificanti, perché ci aiutano a porre la speranza in Dio solo” (Due Pellegrini per la giustizia, Piemme, Casale Monferrato, p 106).

Proprio così è avvenuto per Giuseppe. Il fatto di non trovare aiuto neppure da parte di chi pensava si sarebbe ricordato di lui, avendo condiviso con lui la sofferenza del carcere, gli fa comprendere che ci sono valori più grandi nella vita sui quali riporre la propria fiducia. Non è la fiducia nel coppiere del faraone che può salvarlo e riscattare la sua vita, ma la fiducia nell’ “Altro” ben diverso.

Ecco la lezione che Giuseppe è chiamato ad interiorizzare. Questo senza voler negare il valore dell’amicizia. Il suo valore è reale; tuttavia, va purificata.

 

Don Luigi Pedrini

19 Maggio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  19 Maggio 2013

Carissimi Parrocchiani,

 abbiamo lasciato Giuseppe impegnato in un dialogo aperto con il coppiere e il panettiere del faraone che si trovano in prigione con lui. Vedendoli afflitti a motivo di un sogno che hanno fatto entrambi nella stessa notte e al quale non sanno dare una spiegazione, li invita ad aprire il loro cuore: Dio che ha il potere di interpretarli ne renderà manifesto il significato.

Il primo a raccontare il sogno è il coppiere. Giuseppe ascolta e prontamente, con semplicità, lo spiega.

[9]Allora il capo dei coppieri raccontò il suo sogno a Giuseppe e gli disse: “Nel mio sogno, ecco mi stava davanti una vite, [10]sulla quale vi erano tre tralci; non appena cominciò a germogliare, apparvero i fiori e i suoi grappoli maturarono gli acini. [11] Io tenevo in mano il calice del faraone; presi gli acini, li spremetti nella coppa del faraone, poi diedi la coppa in mano al faraone”.

[12]Giuseppe gli disse: “Eccone l’interpretazione: i tre tralci rappresentano tre giorni. [13]Fra tre giorni il faraone solleverà la tua testa e ti reintegrerà nella tua carica e tu porgerai il calice al faraone, secondo la consuetudine di prima, quando eri il suo coppiere. [14]Se poi, nella tua fortuna, volessi ricordarti che sono stato con te, trattami, ti prego, con bontà: ricordami al faraone per farmi uscire da questa casa. [15]Perché io sono stato portato via ingiustamente dalla terra degli Ebrei e anche qui non ho fatto nulla perché mi mettessero in questo sotterraneo” Gen 40,9-15)

Su questo primo racconto meritano di essere fatte tre sottolineature. Anzitutto, è interessante il fatto che si torni nuovamente a parlare di sogni nella vicenda di Giuseppe. E’ la seconda volta. Accadrà anche più avanti con i sogni del faraone.

In secondo luogo, scopriamo che Giuseppe è in grado di offrire al coppiere oltre al sincero rapporto di amicizia che si crea nelle comuni situazioni di bisogno, anche la spiegazione del sogno: si tratta per lui di una buona notizia, perché gli annuncia l’imminente scarcerazione e la totale riabilitazione dal parte del faraone.

In terzo luogo, sono degne di nota le parole finali di Giuseppe, accorate e, allo stesso tempo, discrete: Se poi, nella tua fortuna, volessi ricordarti che sono stato con te, trattami, ti prego, con bontà: ricordami al faraone per farmi uscire da questa casa (v. 14). Come si vede, Giuseppe fa leva sull’amicizia che si è instaurata tra loro in prigione e, tuttavia, fa la sua richiesta, con modestia e senza alcuna pretesa.

La spiegazione soddisfacente e favorevole offerta da Giuseppe spinge anche l’altro prigioniero, il panettiere, a fare altrettanto: anche lui racconta il suo sogno a Giuseppe.

Ma di questo parleremo la prossima volta.

 Don Luigi Pedrini

12 Maggio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  12 Maggio 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver considerato le sofferte, ma anche purificanti disillusioni che Giuseppe ha incontrato sul piano dell’onestà, consideriamo, ora, quelle incontrate sul piano dell’amicizia.
Giuseppe si trova, ora, in carcere insieme ad altri detenuti. L’esperienza testimonia che, in genere, la situazione di sofferenza comune provoca una spontanea solidarietà che, spesso, è il terreno fecondo di amicizie profonde che segnano la vita.
Giuseppe – come sappiamo – non ha alle spalle un’esperienza di fraternità amica; inoltre, è reduce dell’esperienza sofferta di uno scacco incontrato sul terreno dell’onestà: quale risposta al bene compiuto e alla sua fedeltà ai principi dell’onestà ha avuto non una ricompensa, ma un’ingiusta punizione.
Adesso è in prigione: un luogo dove l’amicizia – proprio perché si è nel bisogno di tutto – può essere apprezzata. E, in effetti, Giuseppe, con la sua bontà e la sua disponibilità, ha subito modo di segnalarsi e di farsi voler bene. Tutto questo non passa inosservato agli occhi del comandante della prigione che lo sceglie come uomo di sua fiducia.

[22]Così il comandante della prigione affidò a Giuseppe tutti i carcerati che erano nella prigione e quanto c’era da fare là dentro, lo faceva lui.

[23]Il comandante della prigione non si prendeva cura più di nulla di quanto gli era affidato, perché il Signore era con lui e quello che egli faceva il Signore faceva riuscire (Gen 39,22-23)

Un giorno, arrivano in carcere come prigionieri il coppiere e il panettiere del faraone, rei di aver mancato di rispetto nei confronti del loro padrone e Giuseppe viene designato dal comandante come loro servitore. Si presenta, così, a Giuseppe l’occasione di vivere incontri significativi con persone che hanno ricoperto ruoli di fiducia alla corte del faraone.
Si tratta di incontri casuali per Giuseppe e, tuttavia, capita spesso che l’azione pedagogica di Dio si renda presente e operante proprio attraverso circostanze misteriose e incontri non preventivati.
Ora, accade che tutti e due – coppiere e panettiere – nella stessa notte, fanno un sogno che li lascia turbati, non essendo in grado di darsi una spiegazione.
Giuseppe si rende conto della loro afflizione e li invita ad aprire il loro cuore con fiducia: i sogni – egli afferma – non sono destinati a rimanere senza risposta, perché c’è chi può darne la spiegazione.
Giuseppe disse loro: <<Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni? Raccontatemi dunque>> (Gen 40,12).

 Don Luigi Pedrini

05 Maggio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  05 Maggio 2013

Carissimi Parrocchiani,

interrompo momentaneamente il commento alla vicenda di Giuseppe, per richiamare la nostra attenzione alla Giornata Nazionale dell’8XMILLE che ricorre in questa domenica.

Questa giornata si celebra in tutte le parrocchie italiane per ricordare l’importanza di firmare per destinare l’8Xmille alla Chiesa cattolica.

È grazie alla firma di ciascuno, infatti, che la Chiesa cattolica ha potuto assicurare, anche nello scorso anno – così si legge nel resoconto dei Vescovi italiani – “il funzionamento di mense per i poveri, centri di accoglienza, case famiglia per persone in difficoltà. Ha realizzato progetti di pastorale negli oratori, creato fondi per le famiglie in crisi. Ha contribuito al sostentamento di 37 mila sacerdoti diocesani”.

Più precisamente si apprende, dal rendiconto ufficiale 2012, che le entrate dello scorso anno sono state così utilizzate: 479 milioni di euro per progetti di culto e pastorale; 363 milioni per il sostentamento dei sacerdoti diocesani; 255 milioni per la carità in Italia e nel Terzo mondo (per chi volesse conoscere in dettaglio le voci dell’utilizzo delle entrate può consultare il sito www.8Xmille.it

Come vedete con una semplice firma sul modello CUD o il modello 730 o il modello UNICO si può dare alla Chiesa un grande contributo.

Vi ringrazio anticipatamente per l’aiuto che anche quest’anno vorrete dare.

 

Don Luigi Pedrini

28 Aprile 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  28 Aprile 2013

Carissimi Parrocchiani,

voglio sostare ancora sull’episodio che vede Giuseppe messo alla prova nella sua onestà per concludere con due brevi considerazioni.

 Anzitutto, il testo dice che Giuseppe per non cedere alla seduttrice ha fatto la scelta radicale della fuga: lasciò tra le mani la veste, fuggì e uscì. In precedenza, sono molto significative le ragioni che Giuseppe ha portato per giustificare il suo diniego. In primo luogo, protesta la sua intenzione di giustizia e di onestà nei confronti del padrone; in secondo luogo, si difende appellandosi in ultima istanza a Dio: Come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?

Dunque, Giuseppe fa fronte a questa situazione chiamando in causa direttamente il suo rapporto con Dio. Per lui, c’è in gioco una questione di appartenenza a Dio riguardo alla quale non è disposto a scendere a compromessi.

L’esperienza dice che questa coscienza viva di appartenenza a Dio non si improvvisa, matura a poco a poco, mette radice attraverso la preghiera e la contemplazione. Infatti, è proprio del contemplativo arrivare a riconoscere Dio in tutte le cose, trovarlo in tutti gli eventi, percepirlo come colui che lo guida, lo custodisce, lo salva, lo ama, così che tutto sia commisurato su di Lui.

Da questo punto di vista scopriamo Giuseppe come un uomo dalla ricca interiorità che, attraverso la preghiera, vive amichevolmente il suo rapporto con Dio, rapporto così solido e radicato da resistere a qualsiasi lusinga fuorviante.

La seconda considerazione riguarda la punizione della prigionia a cui Giuseppe va incontro. Una punizione ingiusta, non meritata. Piuttosto, a motivo della sua onestà e della sua fede, Giuseppe poteva aspettarsi un intervento di Dio che facesse verità e smascherasse l’inganno, così da risparmiargli la dura prova del carcere. Le cose, però, non sono andate così.

La storia di Giuseppe ci rimanda continuamente al mistero della croce che attraversa la vita del discepolo. Chiunque decide di seguire Cristo e di fare la sua stessa strada sa che i conti – se letti secondo la logica del mondo – non tornano. Giuseppe ci insegna che spesso il bene non solo non ha la ricompensa dovuta, ma anche va incontro al fraintendimento, all’incomprensione, fino all’opposizione palese. E questo perché il mondo, viaggiando su parametri che non sono quelli del servizio e del dono gratuito di sé, prova fastidio di fronte a chi cammina nel bene.

Giuseppe, tuttavia, andrà avanti per la sua strada: al male non risponderà con il male e continuerà a perseverare nel bene.

Anche Gesù farà lo stesso: all’ingiusta condanna a morte risponderà con un amore capace di donarsi fino alla fine.

Don Luigi Pedrini

21 Aprile 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  21 Aprile 2013

Carissimi Parrocchiani,

prima di congedarci da questo episodio nel quale l’onestà di Giuseppe viene messa a dura prova, voglio ritornare sulla vicenda per fare qualche considerazione che può tornare utile anche per il nostro personale cammino di purificazione interiore.
Abbiamo letto nel testo biblico che Giuseppe era bello di forma e attraente di aspetto (Gen 39,6).
Questo particolare nel contesto del brano non vuole richiamare semplicemente l’attenzione su una dote fisica, ma anche alla benedizione di Dio su Giuseppe: la bellezza esteriore di Giuseppe è un segno di gradimento da parte di Dio.
La cosa singolare è che proprio questo dono diventa per Giuseppe il luogo della prova e della prima crisi a cui va incontro nel paese straniero in cui si trova.
Proprio da questa singolarità possiamo, anzitutto, raccogliere una considerazione importante per la nostra vita spirituale: ogni dono, prima o poi, diventa motivo di tentazione.
Per Giuseppe la tentazione consiste nell’accondiscendere alla richiesta della moglie di Potifar e di trarne dei vantaggi per costruirsi una rete di potere e di privilegi nella casa del suo padrone.
A rendere ancora più appetibile questa tentazione contribuisce il fatto che Giuseppe vive come separato in terra straniera: è un separato dai suoi fratelli. Questa dimensione sofferta rende più forte il bisogno di appoggiarsi e di trovare accoglienza presso qualcuno.
Quando una persona ha il cuore ferito e amareggiato è più facilmente esposta alla tentazione di darsi alle cose più banali, di lasciarsi andare. Talvolta, poi, può insinuarsi anche una logica di rivalsa che porta a ragionare presso a poco così: mi hanno messo da parte, mi hanno emarginato; ora, faccio vedere che sono capace di costruirmi io, da solo, un’altra vita…
Ecco, la tentazione: Giuseppe potrebbe utilizzare il dono ricevuto per ricostruire la vita secondo un suo progetto, anziché secondo il progetto di Dio. È la tentazione di sempre dell’uomo, quella a cui hanno ceduto i nostri progenitori, fin dall’inizio, nel paradiso terrestre, quando hanno voluto impadronirsi del dono ricevuto per raggiungere i propri scopi prescindendo dal donatore, cioè da Dio,
Così, questa prima considerazione ci ricorda che proprio dove il dono ricevuto è più grande siamo chiamati a vivere una grande purificazione: proprio lì siamo chiamati a vivere la nostra pasqua, cioè a fare quel passaggio di morte a noi stessi, al nostro egoismo, per rinascere liberi alla vita autentica, quella del dono di sé.
Dunque, questo episodio della vicenda di Giuseppe ci insegna che proprio dove il talento è più forte si incontra la prova della spoliazione, della “chenosi”, cioè dello svuotamento di noi stessi. La posta in gioco è importante: si tratta di far sì che il talento ricevuto sia usato non nell’orizzonte dell’egoismo, ma dell’amore.

Don Luigi Pedrini

14 Aprile 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  14 Aprile 2013

Carissimi Parrocchiani,

concludevo l’altra volta accennando ad una testimonianza rabbinica nella quale si mette in risalto la constatazione palese dell’innocenza di Giuseppe da parte dei giudici egiziani e, insieme, la strumentale risoluzione che viene presa per non compromettere il buon nome della famiglia di Potifar.

Così, si legge nel racconto midrashico della tradizione ebraica:

 Quando l’accusa della moglie di Potifar contro Giuseppe venne portata dinanzi a una corte, il giudice dopo aver ascoltato le due parti, fece portare la tunica di Giuseppe e la esaminò attentamente.

Tenendola ben in alto disse: ‘Se questo schiavo, come dice la sua padrona, ha tentato di usarle violenza ed è fuggito alle sue grida, la tunica, da lei trattenuta per avere una prova evidente contro di lui, dovrebbe essere strappata sul dorso. Se invece ella gliela strappò per eccitare il proprio desiderio, lo strappo dovrebbe essere davanti’.

Tutti i giudici giurarono solennemente che lo strappo era sul davanti, ma per non gettare in discredito la moglie di Potifar, gettarono Giuseppe in prigione pur raccomandando ai custodi di trattarlo meno severamente dei compagni di carcere.

 

In questo modo, Giuseppe si trova ancora a sprofondare nel buio e a vivere un’esperienza davvero amara: la sua giustizia, la sua onestà, la sua fedeltà non gli hanno giovato: non sono state capite, né premiate. L’esito è che ora – come già era accaduto prima in occasione del complotto dei fratelli – si ritrova ancora nella fossa.

È ammirevole il grande spirito di sopportazione con cui Giuseppe accetta questa nuova sventura.

Così, annota il testo biblico:

 Così egli rimase là in prigione. Ma il Signore fu con Giuseppe, gli conciliò benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del comandante della prigione (Gen 39,20b-21)

 Dunque, una nuova grande prova per Giuseppe, ma “con” il Signore al proprio fianco. Egli trova benevolenza attorno a sé, pur nel buio della prigione. Da parte sua, nessuno rimprovero a Dio, né alcuna ribellione interiore.

Giuseppe rimane in carcere due anni, vivendo questo tempo sofferto come una scuola di profonda purificazione interiore.

 

Don Luigi Pedrini

 

 

7 Aprile 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  07 Aprile 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo la pausa dovuta, prima, all’elezione di Papa Francesco; poi, alla Settimana Santa e alla Pasqua, riprendiamo il filo della vicenda di Giuseppe.

Abbiamo concluso l’ultima volta sottolineando la dirittura morale con cui egli, piuttosto che offendere Dio e tradire la fiducia del suo padrone, sceglie la fuga di fronte alle molestie della moglie di Potifar. Ed ecco che cosa accade.

 

3Allora lei, vedendo che egli le aveva lasciato tra le mani la veste ed era fuggito fuori, 14chiamò i suoi domestici e disse loro: “Guardate, ci ha condotto in casa un Ebreo per divertirsi con noi! Mi si è accostato per coricarsi con me, ma io ho gridato a gran voce. 15Egli, appena ha sentito che alzavo la voce e chiamavo, ha lasciato la veste accanto a me, è fuggito e se ne è andato fuori”.

 

Dunque, la moglie di Potifar, anziché demordere e rassegnarsi di fronte al comportamento irreprensibile di Giuseppe, preferisce rincarare la dose e passa all’accusa. A questa decisione forse non è del tutto estranea l’intenzione – come annota ancora il card. Martini – di far vedere al marito che lei è una donna desiderata e, quindi, meritevole di attenzione. Infatti, quando il marito ritorna, riferisce la versione dei fatti già data, in precedenza, ai servi.

 

16Ed ella pose accanto a sé la veste di lui finché il padrone venne a casa. 17Allora gli disse le stesse cose: “Quel servo ebreo, che tu ci hai condotto in casa, mi si è accostato per divertirsi con me. 18Ma appena io ho gridato e ho chiamato, ha abbandonato la veste presso di me ed è fuggito fuori”. 19Il padrone, all’udire le parole che sua moglie gli ripeteva: “Proprio così mi ha fatto il tuo servo!”, si accese d’ira. 20Il padrone prese Giuseppe e lo mise nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione.

 

Il marito si accende d’ira e punisce Giuseppe con rigore. Tuttavia, dalla risoluzione presa (“lo mise in prigione”) si capisce che Potifar non è del tutto persuaso dalle parole della moglie. Se lo fosse stato, avrebbe riservato una sorte ben diversa a Giuseppe, dal momento che quel capo di imputazione poteva esse punito anche con la morte. La spiegazione dell’ira di Potifar va cercata, allora, altrove: probabilmente, egli subodora la tresca della moglie, ma non volendo scontrarsi con lei, si vede costretto, suo malgrado, a rinunciare ad un servitore nel quale poteva riporre interamente la sua fiducia.

Così, controvoglia si trova a dover prendere posizione e opta, sia pure con dispiacere, per questa risoluzione. Giuseppe viene consegnato alla giustizia egiziana e ciò a cui va incontro sono le pareti buie di una cella.

Anche se la Scrittura non ne parla espressamente, sappiamo da testimonianze rabbiniche che c’è stato un processo al fine di accertare la veridicità delle accuse sollevate nei confronti di Giuseppe. Anzi, secondo tali testimonianze, i giudici egiziani dovettero constatare palesemente l’innocenza di Giuseppe. Per ragioni, però, di convenienza umana hanno preferito non impugnare la difesa nei suoi confronti. Di questo, però, parleremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

24 Marzo 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  24 Marzo 2013

Carissimi Parrocchiani,
con la celebrazione della domenica delle palme diamo inizio alla settimana santa e, così, apriamo la via verso il triduo pasquale.
Come siamo chiamati ad entrare in questa settimana che ha cambiato e ancora sta cambiando la storia del mondo? La Chiesa ci fa entrare cominciando con un’acclamazione a Cristo come vincitore e come re. A noi viene da domandarci se sia una scelta opportuna, dal momento che nei prossimi giorni faremo memoria delle sofferenze del Signore. In realtà, noi non guarderemo alla Passione solo con sentimenti di compassione e di dolore, ma anche con sentimenti di riconoscenza e di gioia perché il Signore ha vinto la morte e regna dalla croce.
Lungo tutta questa settimana, rivivremo il mistero della passione e risurrezione di Cristo come mistero di vittoria e di salvezza per l’uomo.
In questa Domenica delle Palme contempliamo Gesù che entra deliberatamente e coraggiosamente nella città che sta tramando contro di Lui.
Nel Giovedì Santo contempleremo Gesù nel cenacolo, che presenta il pane e il vino come segno della sua decisione di dare la vita per noi.
Nel Venerdì Santo staremo con Maria e l’apostolo Giovanni sotto la croce, per sperimentare l’amore salvifico di Gesù fino all’ultima goccia di sangue.
Nel Sabato Santo contempleremo il sepolcro dove Gesù si è lasciato rinchiudere per sigillare il suo amore per noi oltre i limiti dell’esistenza umana.
Nella notte di Pasqua risentiremo il grido dell’alleluia, grido che è già nascosto e implicito in tutti i canti di questa settimana perché nella vita, morte e risurrezione di Cristo ci è dato di vivere con lui in eterno.
E, dunque, la settimana della vittoria della croce che noi cominciamo a celebrare oggi, sostando in questo inizio su questo anticipo di vittoria di Cristo che è l’ingresso in Gerusalemme.
A tutti l’augurio di vivere bene questi giorni di grazia!

Don Luigi Pedrini

17 Marzo 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  17 Marzo 2013

Carissimi Parrocchiani,

 con trepidazione, con fede, con gioia abbiamo accolto la nomina del Card. Jorge Mario Bergoglio alla Sede di Pietro. Ora abbiamo un nuovo Papa: Francesco.

 Abbiamo avuto modo di vederlo e ascoltarlo nella diretta televisiva mentre pronunciava come pontefice le sue prime parole. Siamo stati colpiti dalla sua semplicità: si è presentato come un vescovo che i suoi fratelli Cardinali sono andati a prendere “quasi alla fine del mondo”, riferendosi alla sua terra natale: l’Argentina. Ancor più ci ha colpito l’umiltà con la quale ha chiesto ai fedeli di pregare qualche istante in silenzio per il loro vescovo. Anche la scelta di un nome come quello di san Francesco appare carica di speranza e, insieme, di rinnovamento.

 Nelle sue parole, pur nella loro essenzialità, ha avuto un’attenzione per tutti: ha nominato più volte la Chiesa di Roma, chiamata a presiedere nella carità tutte le Chiese; ha augurato ai cristiani un cammino di fratellanza, di amore, di reciproca fiducia; ha chiesto per il mondo il dono di una grande fratellanza. Non ha mancato di ricordare Benedetto XVI invitando a pregare per lui.

 Questa sua sensibilità per tutti nasce, certamente, dalla sua storia personale che lo lega ad una Chiesa – quella argentina – che ha un’attenzione maggiore, di quanto non avvenga qui in Europa, per i poveri.

Tuttavia, credo, che la sorgente più profonda di questa attenzione vada cercata nella sua esperienza di fede. In questa direzione indirizza il suo motto episcopale – quella frase che ogni vescovo sceglie nel momento in cui viene consacrato e che ha una sorta di valore programmatico per la sua missione episcopale – che suona così: miserando atque eligendo. È tratta da un’omelia di San Beda il venerabile che commentando le parole evangeliche: “Gesù vide un uomo chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte e gli disse: ‘Seguimi’”, scrive che Gesù “vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelsemiserando atque eligendo – gli disse: ‘Seguimi’”. Il motto richiama, dunque, l’attenzione sull’amore gratuito e preferenziale del Signore capace di far breccia nel cuore delle persone.

Con questo stesso amore Francesco ha scelto di guardare a questa nostra umanità, ispirandosi all’esempio di san Francesco e, più a monte, di Gesù, buon Pastore.

 Lo accompagneremo con la nostra preghiera in tutto il suo ministero; ma, soprattutto, in questi primi giorni gli siamo particolarmente vicini.

Don Luigi Pedrini