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29 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 29 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

prendendo ora in considerazione la seconda parte del v. 2 del capitolo 37 della Genesi possiamo rivolgere un primo sguardo sulla vita interna della famiglia di Giacobbe.

La prima parte del versetto – Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Essendo ancora giovane, stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre – allude ad un clima di unità e fratellanza che regna tra i figli di Giacobbe. Si ha l’impressione di un quadro di vita pastorale sereno nel quale i fratelli stanno insieme in modo amichevole.

A diciassette anni Giuseppe è un pastorello impegnato nel pascolo del bestiame insieme con i fratelli. Tutti svolgono lo stesso lavoro: sono pastori. Siamo, dunque, di fronte ad un’economia familiare unificata, che viene ad interrompere la differenziazione di mestiere che era presente, invece, nelle famiglie precedenti (cfr: Caino, il cacciatore e Abele, il pastore; Esaù, il cacciatore e Giacobbe, il pastore).

Il versetto riferisce che Giuseppe “stava” con i figli di Bila e di Zilpa. In realtà, sarebbe più corretto tradurre: “Giuseppe aiutava i figli di Bila e di Zilpa”. Infatti, il testo vuole evidenziare che Giuseppe si colloca su un piano di inferiorità rispetto ai fratelli: la sua giovane età fa sì che egli svolga dei compiti secondari. Egli è ancora un apprendista pastore, un ‘aiutante’ (na’ar).

Ma ecco l’ultima parte del versetto 2: Ora Giuseppe riferì al loro padre di chiacchiere maligne su di loro.

Queste parole rivelano un aspetto un po’ singolare della personalità di Giuseppe. Se da una parte è un giovane ancora inesperto, tuttavia, possiede una certa scioltezza o – forse più giustamente – ingenuità nel parlare. Così, diventa un informatore di notizie presso il padre.

Va notato che la traduzione ufficiale della Chiesa italiana (CEI) parla di “chiacchiere maligne su di loro”. Un autorevole commentatore – A. Schokel – preferisce usare l’espressione “cattive informazioni”, precisando che non devono essere intese come diffamazioni e ancor meno come calunnie.

Ad ogni modo, il testo sembra propenso a valutare il parlare di Giuseppe come qualcosa di inopportuno, frutto di ingenuità giovanile, pur essendo un parlare libero da cattive intenzioni. Sta di fatto che questo particolare introduce tra i fratelli un elemento di tensione.

Don Luigi Pedrini

23 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 23 Luglio 2012

[1]Giacobbe si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero, nel paese di Canaan. Giuseppe e i suoi fratelli

[2]Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane e stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre. Ora Giuseppe riferì al loro padre i pettegolezzi sul loro conto.

[3]Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche.

[4]I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente.

Carissimi Parrocchiani,

dopo le necessarie premesse introduttive, è ora tempo di introdurci nella storia di Giuseppe. I primi quattro versetti del cap. 37 fanno luce sul contesto da cui essa prende avvio. Anzitutto, riferiscono il luogo in cui vive la famiglia di Giacobbe e indicano in Giuseppe il nuovo protagonista degli avvenimenti; in secondo luogo, aprono una finestra sulla vita interna di questa famiglia.

Quanto al luogo si precisa che Giacobbe si stabilisce nel paese di Canaan, il paese in cui Abramo e Isacco avevano soggiornato da nomadi. Ora, Giacobbe vi risiede in modo stabile. Dunque, la terra di Canaan che fino ad allora era stata per i patriarchi una terra di passaggio, diventa, da questo momento, una terra stabile. D’ora innanzi, la vita dei patriarchi, da nomade, si fa sedentaria.

Le parole scarne – Giuseppe e i suoi fratelli. Questa è la storia della discendenza di Giacobbe – lasciano intendere che d’ora innanzi l’attenzione si concentra interamente sulla famiglia di Giacobbe. L’attenzione su Giacobbbe e il corrispettivo silenzio su Esaù e la sua famiglia stanno a dire che Giacobbe è l’erede patriarcale che porta avanti legittimamente la discendenza di Abramo e la promessa di benedizione ricevuta da Dio.

Inizia qui la storia di questa famiglia: è lei il soggetto che sta sullo sfondo del dipanarsi dei vari avvenimenti. Un noto biblista (H. Gunkel), constatando che tutto il racconto si costruisce attorno a questo nucleo familiare, ha proposto di intitolare i capitoli della Genesi che vanno dal 37 al 50 come “storia di una famiglia”. A rigor di termini, questa proposta appare un po’ eccessiva, perché poi nel testo ci sono anche degli spezzoni di racconto che esulano da questo filone (come, ad esempio, il racconto della seduttrice che si vendica o di Giuseppe innocente messo in carcere e, poi, liberato…). E, tuttavia, ha una sua pertinenza: i cap. 37-50 sono anche una storia di famiglia, ci parlano di una famiglia lacerata dall’invidia e dall’odio, tragicamente divisa, che attraversa dure prove e tribolazioni e che, alla fine, giunge ad un’inattesa riconciliazione.

Circa la finestra aperta dai versetti 2-4 sulla situazione interna di questa famiglia vedremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

 

15 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 15 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

la settimana scorsa concludevo affermando che la storia di Giuseppe, anche se a uno sguardo immediato non appare, è tuttavia profondamente religiosa, al punto da poter affermare che proprio la fede in un Dio che anima ogni singolo avvenimento costituisce la ‘roccia’ del pellegrinaggio di fede di Giuseppe.

Due testi sono profondamente rivelatori al riguardo.

Anzitutto, Gen. 40,8 dove compare per la prima volta sulla bocca di Giuseppe la menzione di Dio. Giuseppe si trova in prigione; nella cella con lui ci sono il coppiere e il panettiere del faraone; tutti e due fanno un sogno e sono in angustia perché non sanno interpretarne il significato. Giuseppe interviene e dà la spiegazione dei due sogni. Ma ciò che a noi interessa è l’affermazione iniziale di Giuseppe. Dichiara: Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni? Queste parole testimoniano che Giuseppe ha acquisito la sapienza di interpretare i sogni, di interpretare cioè il vissuto interiore di una persona, di cui il sogno è espressione. Tuttavia, Giuseppe riconduce questa sapienza a Dio, il vero sapiente che conosce il cuore dell’uomo e che può aiutare ciascuno a penetrare il cuore, a capire chi siamo e dove stiamo andando.

Più importante e rivelativo è Gen. 45,3-8 che riferisce le parole di Giuseppe nel momento in cui si fa riconoscere dai fratelli. Nulla nel contesto lascerebbe prevedere una rivelazione del genere. I fratelli sono da Giuseppe, colui che in Egitto è secondo soltanto al faraone, gli si prostrano davanti e devono rispondere all’accusa di furto della coppa di Giuseppe, che è stata scoperta nella sacca di Beniamino. L’accusa di Giuseppe sembra il preludio di una gravosa punizione. E, invece, la tensione si scioglie improvvisamente. Giuseppe manda via i servi e piangendo, si fa conoscere a loro ed esclama: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello… Dio mi ha mandato qui per conservarvi in vita”. Per tre volte Giuseppe afferma che è stato Dio a “mandarlo” in Egitto al fine di beneficare i suoi familiari: Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio…

“Dio mi ha mandato”: dunque, per Giuseppe, determinante in tutta la sua intricata e sofferta vicenda è l’iniziativa di Dio. Il punto prospettico dal quale egli rilegge l’intera vicenda non è la tresca meschina messa in atto dai fratelli, ma l’iniziativa di Dio che si è servito di quella triste vicenda per attuare un disegno di provvidenza che abbraccia tutta la sua famiglia e, ultimamente, il popolo di Israele.

Giuseppe vive di questa roccia. Da qui scaturisce in lui la capacità di non censurare nulla della sua storia, di non rimuoverla, ma di rileggere ogni avvenimento all’interno di un disegno armonico e provvidente. Per questa strada egli giunge alla scoperta fino di quel ‘nome’ che Dio ha in serbo per lui, cioè della sua ‘vocazione personale’: quella di restituire i suoi fratelli al dono della fraternità riconciliata.

Don Luigi Pedrini

 

08 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 08 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

c’è ancora una premessa su cui è importante soffermarci prima di entrare nella vicenda di Giuseppe.

Al riguardo, prendo le mosse da un testo che si trova nel vangelo di Matteo nel quale Gesù, concludendo un lungo insegnamento impartito ai discepoli – il cosiddetto ‘Discorso della montagna’ – afferma: Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la casa sulla roccia” (Mt 7,24).

Alla luce di queste parole con cui Gesù ricorda che ogni cammino di fede per reggere deve edificarsi sulla roccia, ci domandiamo: qual’è la roccia sulla quale si è edificato il pellegrinaggio di Giuseppe e che gli ha consentito di essere non un ‘fuggitivo’, ma un vero ‘pellegrino’, uno che sapeva da dove la sua vita era partita, dove voleva andare, dove in sostanza la sua vita trovava consistenza e stabilità? Esiste, davvero, in questa vicenda – che è segnata da contrasti fortissimi e da inaspettati cambi di scena al limite dell’assurdità – questa roccia che l’ha riscattata dalla frammentarietà e dall’assurdità, l’ha resa sensata e unitaria, facendo di Giuseppe il credente che vive interamente appoggiato a Dio e che interpreta la sua drammatica vicenda a partire da Lui? Se esiste, dove affiora? Come viene descritta?

Non è facile rispondere a queste domande, non solo perché la storia di Giuseppe è complessa, ma anche perché – come hanno fatto notare alcuni esegeti – essa appare quasi una “storia laica”. Così, si legge in un commentario di questa vicenda: “La storia di Giuseppe si distingue per una mondanità rivoluzionaria, una mondanità che descrive tutto l’ambito della vita umana, tutte le sue sublimità e profondità con un realismo per niente moralistico” (Negretti – Westermann – Von Rad, Gli inizi della nostra storia, Torino, Marietti, 1974, p. 138).

In effetti, in questa storia non troviamo visioni di Dio, né dialoghi, né promesse, come nella vicenda di Abramo; non c’è nessuna apparizione di angeli o descrizioni di esperienze di preghiera, come nella vicenda di Giacobbe. Non troviamo, neppure, i ‘gesti’ di preghiera presenti nella vita di Abramo (che costruisce in diverse occasioni un altare per il Signore); e anche nella vita di Giacobbe (che innalza una stele per far memoria di Dio).

Certamente, questa assenza appare sorprendente, tanto più se si tiene conto che non sono mancati nella vicenda di Giuseppe momenti veramente drammatici (come quando Giuseppe si ritrova abbandonato in fondo ad un pozzo, oppure in prigione).

Tuttavia, la storia di Giuseppe è profondamente religiosa: è vero che in essa si parla poco di Dio, ma la ragione è che Dio è percepito come una presenza che anima ogni avvenimento e che avvolge tutto. Proprio questa fede in un Dio onnipresente e fedele costituisce la roccia del pellegrinaggio interiore di Giuseppe. Ne danno conferma due testi particolarmente rivelativi. Ma su questo ci soffermeremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

01 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 01 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

prima di entrare nella vicenda Giuseppe, voglio dire una parola sul nostro pellegrinaggio di fede. Concludevo, l’ultima volta, dicendo che nel pellegrinaggio intcriore di Giuseppe possiamo leggere qualcosa anche del nostro cammino di fede. Tuttavia, dobbiamo aggiungere che il nostro pellegrinaggio, pur presentando delle costanti comuni a tutti, rimane molto personale. Ne deriva che ciascuno ha il suo pellegrinaggio da fare; un pellegrinaggio unico, originale, insostituibile, che affonda le radici nella liberalità del disegno di Dio su di noi per cui Egli chiama a una certa missione “chi” vuole e “come” vuole.

Questa liberalità di Dio si riscontra in tutto il libro della Genesi e anche nella vicenda di Giuseppe. Così, ad esempio, ritornando all’accenno che ho fatto sulle Toledot, se noi andiamo a leggere attentamente a questo riguardo il libro della Genesi, scopriamo che ci sono famiglie “scelte” da Dio e che entrano a pieno titolo nella discendenza “ufficiale” di Israele, quella cioè che costituirà la linea dividica da cui nascerà Gesù, e ci sono famiglie che passano in ombra per scomparire, poi, completamente. Accade, così, che nella discendenza di Isacco la famiglia di Giacobbe entra nel solco della promessa di Abramo, mentre quella di Esaù a un certo punto scompare; , ugualmente, in precedenza, nel solco della promessa era entrato Isacco e non Ismaele.

Dunque, dobbiamo prendere atto di questo fatto strano, almeno a prima vista: qualcuno viene scelto; qualcun altro messo da parte; Dio è padre di tutti – come la Scrittura testimonia – e, tuttavia, sceglie alcuni e non altri; ama tutti indistintamente, ma elegge qualcuno sugli altri e, così, sceglie Isacco e non Ismaele; Giacobbe e non Esaù; il popolo di Israele e non l’Egitto…

Anche la storia di Giuseppe presenta questo paradosso. È la storia di una famiglia in cui i fratelli si dividono tra loro perché non accettano che Dio usi delle “preferenze” nei loro confronti. Vorrebbero essere trattati tutti allo stesso modo.

In realtà, dietro questa aspettativa, sta la pretesa di voler imporre a Dio la “non scelta”, una generica uniformità nel suo rapportarsi con loro. E, invece, l’amore di Dio non è mai un generico voler bene anonimo e uniforme: è un voler bene “personale” che suscita, pertanto, delle differenze.

La vicenda di Giuseppe ci mette di fronte a dodici fratelli diversi: ciascuno ha la propria storia, ha un modo personale di rapportarsi a Dio e anche Dio nel rapportarsi con ciascuno ha rispetto per la sua originalità.

In questa prospettiva, ascoltando questa storia, noi vedremo prendere risalto il tema della “runica dalle lunghe maniche”, una tunica cucita da Giacobbe stesso per Giuseppe ed espressione dell’amore di predilezione che ha per lui. Attorno a questa tunica si costruisce tutta la vicenda.

Questa tunica è simbolo dell’amore personale con cui Dio ama ogni suo figlio; è rimando a quel è “nome nuovo” che solo Dio conosce e che con assoluta libertà vuole donare e svelare a ciascuno. Così ognuno di noi pensando a Giuseppe può pensare alla “tunica” che ha ricevuto da Dio, espressione dell’amore personale con cui Dio ama ciascuno. Egli ama tutte le persone che conosciamo, tra le quali ci sono anche persone anche più brave di noi. Eppure, il Signore ha scelto noi per la strada che stiamo percorrendo e questo è frutto semplicemente della sua liberalità.

Don Luigi Pedrini

24 Giugno 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 24 Giugno 2012

Carissimi Parrocchiani,

come accennavo la settimana scorsa, il racconto della vicenda di Giuseppe appartiene all’ultima storia familiare (toledòt) narrata nel libro della Genesi. Ed è una storia esemplare.

 Le storie precedenti non offrono sempre nel loro soggetto più rappresentativo un comportamento esemplare: si pensi al comportamento riprovevole assunto da Abramo in Egitto, alla corte del faraone, nel tentativo di salvare la propria vita; si pensi alle diverse astuzie messe in atto da Giacobbe pur di raggiungere quanto gli stava a cuore.

 Giuseppe, invece, secondo la tradizione biblica, incarna l’immagine dell’uomo di cui Dio si compiace: onesto, leale nell’assolvere i propri doveri, trasparente nei comportamenti, capace di perdonare; accorto nell’amministrare i beni terreni… Giuseppe realizza in modo esemplare la figura biblica dell’uomo timorato del Signore.

 La tradizione cristiana, da parte sua, ha visto Giuseppe come una delle prefigurazioni più significative di Gesù, in quanto artefice di riconciliazione con Dio, con i fratelli, con le cose. I Padri, in particolare, hanno letto alcuni episodi della sua vita come anticipazioni profetiche di Gesù. Così, ad esempio, in Giuseppe rifiutato dai fratelli hanno visto prefigurato Gesù pure rifiutato dai “suoi”, come attesta san Giovanni nel suo Vangelo: “Venne tra i suoi,e i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11); in Giuseppe venduto dai fratelli hanno visto la prefigurazione di Gesù venduto da uno degli apostoli; in Giuseppe, fratello rifiutato che diventa il perno della rinascita della sua famiglia hanno visto Gesù quale pietra scartata che diventa pietra d’angolo della grande famiglia della Chiesa, nella quale tutti ci riconosciamo fratelli.

 Ma forse l’aspetto più avvincente di tutta la vicenda sta nel fatto che Giuseppe è giunto a questo vertice di perfezione attraverso un lungo cammino di purificazione e di maturazione di fede: infatti, all’inizio del racconto noi incontriamo un giovincello piuttosto ingenuo, forse anche un po’ viziato; alla fine, scopriamo in Giuseppe la figura dell’uomo saggio, pienamente aperto a Dio e insieme dedito ai fratelli. Tra queste due immagini, a fare come da ponte, c’è un lungo e paziente pellegrinaggio umano e spirituale che l’ha portato a diventare un uomo di fede e un testimone del volto misericordioso di Dio.

 Nella riflessione che intendo proporre vorrei far luce sul pellegrinaggio interiore di Giuseppe: vi si può leggere qualcosa del cammino di fede di ogni credente e, quindi, anche del nostro.

 

Don Luigi Pedrini

 

17 Giugno 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 17 Giugno 2012

Carissimi Parrocchiani,

dopo qualche domenica di pausa, riprendiamo la storia di Giuseppe che abbiamo da poco iniziato. Essa costituisce nel libro della Genesi il punto più alto della cammino di ricostruzione messo in atto da Dio dopo il peccato originale.

Il libro, dopo aver narrato nei primi due capitoli la creazione della terra e di ogni essere vivente lasciando intravedere la bontà e la sapienza che animano il progetto creativo di Dio, narra il deteriorarsi dell’armonia iniziale.

In particolare, questo progetto contemplava la positiva relazione dell’uomo con Dio; con i fratelli e con i beni della terra. Questa triplice relazione, costituiva per la vita dell’uomo, si è gravemente compromessa a causa del peccato: la disobbedienza dei progenitori ha messo in crisi la relazione con Dio; il peccato di Caino ha inquinato il rapporto con i fratelli; il peccato dei costruttori della torre di Babele rivela un rapporto distorto con i beni della terra.

A partire dal capitolo 12 inizia il racconto della storia di Abramo, a cui fa seguito dal capitolo 25 quello di Giacobbe e dal capitolo 37 quello di Giuseppe. Queste storie si possono interpretare come le tre strade indicate da Dio quale rimedio ai tre peccati: indicano, dunque, i passi verso una progressiva riconciliazione e, quindi, piena riabilitazione del progetto originario di Dio.

In questa prospettiva, Abramo è colui che risana la prima relazione, attraverso una fede amorosa e obbediente; Giacobbe risana la seconda relazione riconciliandosi con il fratello Esaù; Giuseppe, sintetizzando in sé sia Abramo che il padre Giacobbe, attua tutte e tre le riconciliazioni: è un uomo di fede che vive alla presenza di Dio; si riconcilia con i fratelli al termine di un lungo cammino di purificazione; ha un giusto rapporto con la terra, tanto che, nonostante la carestia, fa prosperare l’Egitto, grazie alla sua saggezza politica ed economica.

Si comprende, allora, l’importanza che riveste la storia di Giuseppe nel libro della Genesi.

Un’ultima nota prima di entrare nella vicenda. Giacobbe è anche il capostipite di una delle grandi “discendenze” (“toledòt” = origini, genealogia, discendenza) che vengono menzionate nel libro della Genesi. Si parla dell’origine (toledòt) del cielo e della terra (Gen. 2,4ss); della genealogia (toledòt) di Adamo (Gen 5,1ss); quindi, della discendenza (toledòt) di Caino (Gen 4,17ss), di Noé (Gen 10,1ss), di Sem (Gen 10,21ss; 11,10), di Terach-Abramo (Gen 11,27ss), di Ismaele (Gen 15,12ss), di Esaù (Gen 36,9) e, infine, di Giacobbe (Gen. 37,2ss).

La storia di Giacobbe-Giuseppe rientra nell’ultima delle “toledòt” ricordate dalla Genesi. Tranne la prima – che si riferisce all’origine del cielo e della terra – le altre sono tutte storie di famiglie.

 

Don Luigi Pedrini

 

03 Giugno 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 03 Giugno 2012

Carissimi Parrocchiani,

 tralascio anche per questa domenica la vicenda di Giuseppe, perché voglio dire una parola sulla festa di oggi – la SS.ma Trinità – e sul Convegno Mondiale delle Famiglie che si sta svolgendo a Milano con la presenza anche di Benedetto XVI.

La Trinità è un mistero grande: noi crediamo l’unico Dio che è Padre e Figlio e Spirito Santo. Per noi è impossibile dare una spiegazione della Trinità e, tuttavia, possiamo darne una ragione. Gesù ci ha detto che ultimamente Dio si può definire come “Amore”. Ora se Dio è amore in se stesso, non può essere un Dio solitario, perché amerebbe soltanto se stesso. Per questo Dio è comunione di persone, amore che si esprime nel dono di sé.

Questo amore che ci ha generato sarà anche il nostro punto di arrivo. All’inizio della nostra vita, così come al termine della vita sta l’amore di Dio. Nel mezzo sta la nostra libertà che può accogliere, fidarsi, corrispondere, oppure può chiudersi nell’indifferenza o nel rifiuto.

Accogliere l’amore di Dio vuol dire corrispondervi e testimoniarlo con l’amore verso questa nostra umanità, specialmente verso quanti tra noi sono più nel bisogno: penso, in particolare, in questo momento alle famiglie di sfollati a causa del terremoto.

L’amore verso Dio implica un sì di amore verso l’umanità. Come cristiani diciamo di sì a tutto ciò che è autenticamente umano e costruisce l’uomo e, viceversa, diciamo no a tutto quello che invece diminuisce l’uomo e ne compromette la dignità.

A questo mira anche il Convegno Mondiale delle famiglie che si concluderà oggi a Milano con il significativo tema che si è dato: “La famiglia, il lavoro, la festa”. La chiesa, illuminata dal Vangelo, dice di sì al valore della famiglia, del lavoro, della festa”.

Contro una società che non difende più la famiglia, che rischia di ridurre il lavoro a qualcosa di disumano pressato dalle esigenze del mercato, che ha perso il senso della festa scaduta soltanto a tempo libero a disposizione per l’evasione e il divertimento, la Chiesa richiama il loro valore autentico.

Oggi in sostanza il messaggio che le famiglie cristiane provenienti da tutto il mondo e riunite a Milano lanciano a tutti potremmo riassumerlo così: “Vale la pena di essere famiglia, di testimoniarne la bellezza e di battersi perché sia riconosciuta e valorizzata. Vale la pena di impegnarsi nel e per il lavoro che è una parte importante della nostra vocazione di persone, custodisce la nostra dignità, ci dà il necessario per vivere, ci permette di contribuire al bene comune. Vale la pena di ricordare che il tempo non è tutto uguale e che il tempo della festa non è un vuoto che ciascuno riempie a piacimento, ma un luogo che va rispettato, amato e difeso proprio come parte di noi stessi, come una patria. La festa ci fa ritrovare la nostra appartenenza: siamo di Dio, in Gesù Cristo, per mezzo dello Spirito”.

Il lavoro e la festa sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra i coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr. Gen. 1-2) ci dice che famiglia, lavoro e giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana (Dalla Lettera di Benedetto XVI per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie)

Don Luigi Pedrini

27 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 27 Maggio 2012

Carissimi Parrocchiani,
oggi, domenica 27 c.m., alle ore 11.15. il nostro Vescovo Mons. Giovanni Giudici, conferirà il sacramento della Confermazione a dodici ragazzi e ragazze nella nostra chiesa parrocchiale

Questi sono i loro nomi:

Battaglia Maria Sofia
Broglia Luca
Cera Alessandro
Colucci Anastasia
Corda Elisa
D’Introno Nicol
Ferrari Francesca
Lanterna Stefano
Mordà Rebecca
Patrono Sara
Ramaioli Stefano
Saletta Riccardo

 

Mentre ringraziamo il Signore per questo dono che è sempre un momento importante nel cammino di una comunità e ci fa sentire come famiglia nella Chiesa, siamo loro vicini con il ricordo e con la preghiera.

Don Luigi Pedrini

20 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 20 Maggio 2012

Carissimi Parrocchiani,

 

da questa domenica cominciamo a seguire il cammino di Giuseppe, figlio di Giacobbe, mettendoci in ascolto dei capitoli 37-50 del libro della Genesi. Questi capitoli costituiscono il cosiddetto “Ciclo di Giuseppe”. Giuseppe è, dunque, il protagonista della terza grande storia patriarcale.

Pertanto, il libro della Genesi, dopo la grande introduzione sulle origini (con i racconti della creazione; i racconti dei tre peccati di origine: quello dei progenitori, di Caino, dei costruttori della Torre di Babele; il racconto della vicenda di Noè), si sviluppa chiaramente in tre parti: il “Ciclo di Abramo” (dal cap. 12 al 25); il “Ciclo di Isacco e Giacobbe” (dal cap. 26 al 36); il “Ciclo di Giuseppe” (dal cap. 37 al 50).

 

Il ciclo di Giuseppe è il più lungo. A differenza dei due precedenti che sono più frammentati è molto armonico e unitario. È un ciclo di grande bellezza, “una preziosa corona che dà splendore a tutti i personaggi precedenti” (C.M. Martini, Due pellegrini per la giustizia, Piemme 1992, p. 28). A prova della ricchezza umana e poetica del testo sta il fatto che uno scrittore come Thomas Mann ne abbia ricavato un romanzo di ben quattro volumi.

Nonostante questo, il ciclo inizia in modo modesto. Non solo non possiede un prologo che faccia da introduzione a Giuseppe, protagonista della vicenda, ma addirittura inizia ancora con la menzione di Giacobbe. Nei primi due versetti del cap. 37 si legge:

 

Giacobbe si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero, nel paese di Canaan. Giuseppe e i suoi fratelli. Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane …

 

Il passaggio da Giacobbe a Giuseppe avviene in modo repentino e, una volta introdotti nel nuovo ciclo, assistiamo qua e là a dei ritorni al ciclo precedente: ci sono, infatti, dei testi in cui Giacobbe ritorna ad essere il protagonista della vicenda. Si verifica, così, un processo di sovrapposizione tra Giacobbe e Giuseppe, tra padre e figlio. Il figlio entra in scena e giunge ad essere protagonista mentre il padre è ancora in vita. D’altra parte, il padre è sempre sullo sfondo e rimane il punto di riferimento ultimo di tutta la vicenda: infatti, il racconto ruota attorno all’esigenza di riscoprire, da parte di tutti i figli, il dono della paternità e, quindi, di accettare in modo pacifico anche il dono della fraternità.

Ha ragione pertanto Schokel quando afferma che il riferimento al padre, è “il polo unificante nella coscienza dei fratelli” (A. Schokel, Giuseppe e i suoi fratelli, Paideia, Roma 1985, p. 12).

 

Don Luigi Pedrini