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7 Aprile 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  07 Aprile 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo la pausa dovuta, prima, all’elezione di Papa Francesco; poi, alla Settimana Santa e alla Pasqua, riprendiamo il filo della vicenda di Giuseppe.

Abbiamo concluso l’ultima volta sottolineando la dirittura morale con cui egli, piuttosto che offendere Dio e tradire la fiducia del suo padrone, sceglie la fuga di fronte alle molestie della moglie di Potifar. Ed ecco che cosa accade.

 

3Allora lei, vedendo che egli le aveva lasciato tra le mani la veste ed era fuggito fuori, 14chiamò i suoi domestici e disse loro: “Guardate, ci ha condotto in casa un Ebreo per divertirsi con noi! Mi si è accostato per coricarsi con me, ma io ho gridato a gran voce. 15Egli, appena ha sentito che alzavo la voce e chiamavo, ha lasciato la veste accanto a me, è fuggito e se ne è andato fuori”.

 

Dunque, la moglie di Potifar, anziché demordere e rassegnarsi di fronte al comportamento irreprensibile di Giuseppe, preferisce rincarare la dose e passa all’accusa. A questa decisione forse non è del tutto estranea l’intenzione – come annota ancora il card. Martini – di far vedere al marito che lei è una donna desiderata e, quindi, meritevole di attenzione. Infatti, quando il marito ritorna, riferisce la versione dei fatti già data, in precedenza, ai servi.

 

16Ed ella pose accanto a sé la veste di lui finché il padrone venne a casa. 17Allora gli disse le stesse cose: “Quel servo ebreo, che tu ci hai condotto in casa, mi si è accostato per divertirsi con me. 18Ma appena io ho gridato e ho chiamato, ha abbandonato la veste presso di me ed è fuggito fuori”. 19Il padrone, all’udire le parole che sua moglie gli ripeteva: “Proprio così mi ha fatto il tuo servo!”, si accese d’ira. 20Il padrone prese Giuseppe e lo mise nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione.

 

Il marito si accende d’ira e punisce Giuseppe con rigore. Tuttavia, dalla risoluzione presa (“lo mise in prigione”) si capisce che Potifar non è del tutto persuaso dalle parole della moglie. Se lo fosse stato, avrebbe riservato una sorte ben diversa a Giuseppe, dal momento che quel capo di imputazione poteva esse punito anche con la morte. La spiegazione dell’ira di Potifar va cercata, allora, altrove: probabilmente, egli subodora la tresca della moglie, ma non volendo scontrarsi con lei, si vede costretto, suo malgrado, a rinunciare ad un servitore nel quale poteva riporre interamente la sua fiducia.

Così, controvoglia si trova a dover prendere posizione e opta, sia pure con dispiacere, per questa risoluzione. Giuseppe viene consegnato alla giustizia egiziana e ciò a cui va incontro sono le pareti buie di una cella.

Anche se la Scrittura non ne parla espressamente, sappiamo da testimonianze rabbiniche che c’è stato un processo al fine di accertare la veridicità delle accuse sollevate nei confronti di Giuseppe. Anzi, secondo tali testimonianze, i giudici egiziani dovettero constatare palesemente l’innocenza di Giuseppe. Per ragioni, però, di convenienza umana hanno preferito non impugnare la difesa nei suoi confronti. Di questo, però, parleremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

24 Marzo 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  24 Marzo 2013

Carissimi Parrocchiani,
con la celebrazione della domenica delle palme diamo inizio alla settimana santa e, così, apriamo la via verso il triduo pasquale.
Come siamo chiamati ad entrare in questa settimana che ha cambiato e ancora sta cambiando la storia del mondo? La Chiesa ci fa entrare cominciando con un’acclamazione a Cristo come vincitore e come re. A noi viene da domandarci se sia una scelta opportuna, dal momento che nei prossimi giorni faremo memoria delle sofferenze del Signore. In realtà, noi non guarderemo alla Passione solo con sentimenti di compassione e di dolore, ma anche con sentimenti di riconoscenza e di gioia perché il Signore ha vinto la morte e regna dalla croce.
Lungo tutta questa settimana, rivivremo il mistero della passione e risurrezione di Cristo come mistero di vittoria e di salvezza per l’uomo.
In questa Domenica delle Palme contempliamo Gesù che entra deliberatamente e coraggiosamente nella città che sta tramando contro di Lui.
Nel Giovedì Santo contempleremo Gesù nel cenacolo, che presenta il pane e il vino come segno della sua decisione di dare la vita per noi.
Nel Venerdì Santo staremo con Maria e l’apostolo Giovanni sotto la croce, per sperimentare l’amore salvifico di Gesù fino all’ultima goccia di sangue.
Nel Sabato Santo contempleremo il sepolcro dove Gesù si è lasciato rinchiudere per sigillare il suo amore per noi oltre i limiti dell’esistenza umana.
Nella notte di Pasqua risentiremo il grido dell’alleluia, grido che è già nascosto e implicito in tutti i canti di questa settimana perché nella vita, morte e risurrezione di Cristo ci è dato di vivere con lui in eterno.
E, dunque, la settimana della vittoria della croce che noi cominciamo a celebrare oggi, sostando in questo inizio su questo anticipo di vittoria di Cristo che è l’ingresso in Gerusalemme.
A tutti l’augurio di vivere bene questi giorni di grazia!

Don Luigi Pedrini

17 Marzo 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  17 Marzo 2013

Carissimi Parrocchiani,

 con trepidazione, con fede, con gioia abbiamo accolto la nomina del Card. Jorge Mario Bergoglio alla Sede di Pietro. Ora abbiamo un nuovo Papa: Francesco.

 Abbiamo avuto modo di vederlo e ascoltarlo nella diretta televisiva mentre pronunciava come pontefice le sue prime parole. Siamo stati colpiti dalla sua semplicità: si è presentato come un vescovo che i suoi fratelli Cardinali sono andati a prendere “quasi alla fine del mondo”, riferendosi alla sua terra natale: l’Argentina. Ancor più ci ha colpito l’umiltà con la quale ha chiesto ai fedeli di pregare qualche istante in silenzio per il loro vescovo. Anche la scelta di un nome come quello di san Francesco appare carica di speranza e, insieme, di rinnovamento.

 Nelle sue parole, pur nella loro essenzialità, ha avuto un’attenzione per tutti: ha nominato più volte la Chiesa di Roma, chiamata a presiedere nella carità tutte le Chiese; ha augurato ai cristiani un cammino di fratellanza, di amore, di reciproca fiducia; ha chiesto per il mondo il dono di una grande fratellanza. Non ha mancato di ricordare Benedetto XVI invitando a pregare per lui.

 Questa sua sensibilità per tutti nasce, certamente, dalla sua storia personale che lo lega ad una Chiesa – quella argentina – che ha un’attenzione maggiore, di quanto non avvenga qui in Europa, per i poveri.

Tuttavia, credo, che la sorgente più profonda di questa attenzione vada cercata nella sua esperienza di fede. In questa direzione indirizza il suo motto episcopale – quella frase che ogni vescovo sceglie nel momento in cui viene consacrato e che ha una sorta di valore programmatico per la sua missione episcopale – che suona così: miserando atque eligendo. È tratta da un’omelia di San Beda il venerabile che commentando le parole evangeliche: “Gesù vide un uomo chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte e gli disse: ‘Seguimi’”, scrive che Gesù “vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelsemiserando atque eligendo – gli disse: ‘Seguimi’”. Il motto richiama, dunque, l’attenzione sull’amore gratuito e preferenziale del Signore capace di far breccia nel cuore delle persone.

Con questo stesso amore Francesco ha scelto di guardare a questa nostra umanità, ispirandosi all’esempio di san Francesco e, più a monte, di Gesù, buon Pastore.

 Lo accompagneremo con la nostra preghiera in tutto il suo ministero; ma, soprattutto, in questi primi giorni gli siamo particolarmente vicini.

Don Luigi Pedrini

 

10 Marzo 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  10 Marzo 2013

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Giuseppe ormai inserito nella casa di Potifar, il consigliere del faraone di cui si è guadagnato la piena fiducia. Ma, ecco, ora l’insidia che mette alla prova la sua rettitudine.

 [7]Dopo questi fatti, la moglie del padrone gettò gli occhi su Giuseppe e gli disse: <<Unisciti a me!>>.

 A motivo della sua bellezza Giuseppe è desiderato dalla moglie di Potifar. L’approccio molto diretto autorizza a fare qualche supposizione: forse questa donna soffriva a motivo di una certa disaffezione da parte del marito e, probabilmente, era una donna frustrata nella sua femminilità. La ragione del suo comportamento non è tanto perché sia innamorata di Giuseppe, ma perché vorrebbe in questo modo ingelosire il marito. A conferma di questa scarsa attenzione che incrina i legami familiari depone anche la grande libertà che Potifar concede a Giuseppe nei riguardi della moglie.

 [8]Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo padrone: <<Vedi, il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa e mi ha dato in mano tutti i suoi averi. [9]Lui stesso non conta più di me in questa casa; non mi ha proibito nulla, se non te, perché sei sua moglie. E come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?>>.

 Giuseppe, messo alla prova, non cede e questo per due ragioni: da una parte, vuole essere fedele al suo padrone e, così, ripagare con l’onestà la fiducia che gli accorda; dall’altra, non vuole peccare contro Dio, compromettendo quell’appartenenza a Lui che è ormai il senso della sua vita.

 [10]E, benché ogni giorno essa ne parlasse a Giuseppe, egli non acconsentì di unirsi, di darsi a lei.

 La tentazione è insistente: è una sorta di stillicidio continuo a cui Giuseppe oppone una resistenza quotidiana, anche se – forse, anche in questo caso, – con un po’ di ingenuità. Egli non si rende conto, probabilmente, che il suo rifiuto non è risolutivo e che la donna, lungi dall’accontentarsi della sua risposta, si sarebbe, anzi, indispettita fino a farne una questione di puntiglio personale. E, infatti, un giorno, mentre Giuseppe è in casa e non ci sono gli altri domestici, la donna

 [12 lo afferrò per la veste, dicendo: <<Unisciti a me!>>. Ma egli le lasciò tra le mani la veste, fuggì e uscì.

A questo punto, a Giuseppe non resta che la fuga. Va notato che – paradossalmente – al centro di questa vicenda troviamo ancora la veste che, qui, simboleggia la dirittura morale di Giuseppe. Egli è, davvero, l’immagine perfetta dell’uomo biblico: l’uomo timorato di Dio che cammina con onestà davanti a Lui.

 Don Luigi Pedrini

3 Marzo 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  3 Marzo 2013

[1]Giuseppe era stato condotto in Egitto e Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie, un Egiziano, lo acquistò da quegli Ismaeliti che l’avevano condotto laggiù. [2]Allora il Signore fu con Giuseppe: a lui tutto riusciva bene e rimase nella casa dell’Egiziano, suo padrone. [3]Il suo padrone si accorse che il Signore era con lui e che quanto egli intraprendeva il Signore faceva riuscire nelle sue mani. [4]Così Giuseppe trovò grazia agli occhi di lui e divenne suo servitore personale; anzi quegli lo nominò suo maggiordomo e gli diede in mano tutti i suoi averi. [5]Da quando egli lo aveva fatto suo maggiordomo e incaricato di tutti i suoi averi, il Signore benedisse la casa dell’Egiziano per causa di Giuseppe e la benedizione del Signore fu su quanto aveva, in casa e nella campagna. [6]Così egli lasciò tutti i suoi averi nelle mani di Giuseppe e non gli domandava conto di nulla, se non del cibo che mangiava. Ora Giuseppe era bello di forma e avvenente di aspetto.

Carissimi Parrocchiani,

seguiamo il graduale cammino di purificazione di Giuseppe ponendo attenzione alle prove a cui è stata sottoposta la sua onestà.

Giuseppe, portato in Egitto, si trova, ora, schiavo nella casa di Potifar. Potifar è un uomo molto vicino al faraone e molto stimato da lui: è suo consigliere e comandante delle guardie. Nella sua casa Giuseppe vive un rapida ascesa: da servo, ultimo arrivato, diventa l’uomo di fiducia.

Nei versetti riportati si può notare il tema ricorrente (è quasi un ritornello) dell’assistenza di Dio: il Signore fu con Giuseppe: a lui tutto riusciva bene (v. 2); il Signore era con lui e quanto egli intraprendeva il Signore faceva riuscire nelle sue mani (v. 3); il Signore benedisse la casa dell’Egiziano per causa di Giuseppe…(v. 5). Dunque, Giuseppe, pur lontano dalla sua terra, sperimenta la benedizione di Dio che è con lui così come era stato, prima, con i suoi padri.

Anzi, proprio questa condizione di povertà lo spinge ad andare all’essenziale: egli impara ad appoggiarsi unicamente a Dio, così che l’appartenenza a Dio diventa il tutto della sua vita. Giuseppe tocca con mano che Dio è veramente con lui: ne è prova la felice riuscita del suo lavoro, il beneficio arrecato alla casa di Potifar; la totale fiducia che gli viene accordata dal suo padrone. Anche l’appunto sulla bellezza (Giuseppe era bello di forma e avvenente di aspetto, v. 6b) vuole mettere, ulteriormente, in risalto la benedizione di Dio su di lui.

C’è da notare al v. 6a il particolare sul cibo: si dice che Potifar chiedeva conto a Giuseppe solo di ciò che mangiava. Singolarità questa che si potrebbe spiegare in due modi: o Potifar era un uomo che si preoccupava molto del cibo; oppure, temeva di essere avvelenato (il ruolo che rivestiva presso il faraone rende plausibile anche questa seconda interpretazione).

Dunque, per Giuseppe, dopo un periodo avaro di soddisfazioni personali, viene a trovarsi in un ambiente in cui si sente accolto, stimato e messo nelle condizioni di dare il meglio di sé. Ma proprio in questa situazione si inserisce l’insidia della tentazione che mette alla prova proprio ciò che è diventato il fondamento della sua vita e, cioè, la sua appartenenza totale a Dio.

  Don Luigi Pedrini

24 Febbraio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  24 Febbraio 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver presentato Giuseppe e le persone che ruotano attorno a lui, il padre Giacobbe e i fratelli, e dopo aver seguito i fatti drammatici del complotto culminato nella vendita di Giuseppe a dei mercanti diretti in Egitto, entriamo, ora, nel cuore di questa vicenda.

Lo facciamo mettendoci in ascolto degli eventi successivi letti, però, da un’angolatura particolare: vogliamo seguire i passi progressivi del cammino di purificazione vissuto prima da Giuseppe e, poi, dai fratelli.
Il cammino di purificazione è un processo lento, graduale, difficile. Non di rado comporta momenti prolungati di oscurità, non scevri da umiliazioni: è un cammino attraverso il quale si è vagliati al crogiuolo, spesso anche attraverso situazioni nelle quali mai avremmo voluto trovarci né mai abbiamo immaginato.
Giuseppe ha, già, sperimentato la grande prova del vedersi rifiutato ed eliminato dai suoi fratelli. Questo, però, è solo l’inizio delle prove che lo condurranno, passo dopo passo, ad una totale purificazione.
Abbiamo appreso dal testo biblico che Giuseppe se, da una parte, si dimostra ancora un po’ ingenuo, tuttavia, è, senza ombra di dubbio, un uomo giusto che crede nell’onestà umana e nel valore dell’amicizia.
Cosa c’è, allora, da purificare in lui? Alla luce del cammino che il Signore gli farà fare, possiamo rispondere che Giuseppe ha dovuto imparare ad andare oltre la sua ingenuità e a vivere i valori dell’onestà e dell’amicizia non solo nell’autenticità, ma anche nel realismo, senza false illusioni o false aspettative che lasciano, poi, l’amarezza dentro.
Solo attraverso questo cammino dì purificazione questi valori mettono veramente radici nella vita, si consolidano e resistono anche di fronte agli scacchi che si possono incontrare.
Seguiamo, allora, il cammino di Giuseppe ponendo attenzione in primo luogo alle purificanti disillusioni riguardo all’onestà e, in secondo luogo, a quelle riguardanti l’amicizia.

Don Luigi Pedrini

17 Febbraio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  17 Febbraio 2013

Cari fratelli e sorelle,

come sapete ho deciso di rinunciare al ministero che il Signore mi ha affidato il 19 aprile 2005. Ho fatto questo in piena libertà per il bene della Chiesa, dopo aver pregato a lungo ed aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza, ben consapevole della gravita di tale atto, ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede. Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura. Ringrazio tutti per l’amore e per la preghiera con cui mi avete accompagnato. Grazie! Ho sentito quasi fisicamente in questi giorni, per me non facili, la forza della preghiera, che l’amore della Chiesa, la vostra preghiera, mi porta. Continuate a pregare per me, per la Chiesa, per il futuro Papa. Il Signore ci guiderà. (BENEDETTO XVI, Udienza di Mercoledì 13 febbraio 2013)

Carissimi Parrocchiani,

ho riportato le parole che in questi giorni più volte abbiamo ascoltato: parole che ci hanno sorpreso, forse anche un po’ scosso. Credo che il modo migliore per leggere questa decisione presa da Benedetto XVI sia di attenerci a quanto egli stesso ha dichiarato.
Il Papa rivela in quale contesto è maturata. È maturata in “piena libertà”: nessuna pressione dall’esterno, tanto che ha colto tutti impreparati; “dopo aver pregato a lungo”: per chi ha affidato la propria vita nelle mani di Dio, non esiste più una decisione privata. Tutto è vissuto a partire dalla volontà di Dio. Ha pregato, è giunto alla certezza che questo ora il Signore gli sta chiedendo; nell’obbedienza si affida; in lucida consapevolezza sia della gravita del fatto (un fatto che contrasta con la prassi abituale, quantunque sia una possibilità prevista dal Codice di Diritto Canonico), sia della precarietà delle forze che lo rendono inadeguato all’assolvimento del ministero petrino.
Il Papa rivela anche la fonte della sua fiducia nel fare tale passo: la “certezza che la Chiesa è di Cristo, il quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura”. Così, egli ribadisce l’umile e sincero riconoscimento, fatto all’inizio del suo pontificato, di essere semplicemente “un umile operaio nella vigna del Signore”. Operaio che ha servito la Chiesa con tutta la sua vita e che, ora, senza vantare alcun diritto, è pronto a farsi da parte, per il bene della Chiesa stessa.
Anche Gesù, in circostanze analoghe, consapevole di essere al tramonto della sua vita terrena, si congedava dai discepoli parlando del suo distacco e affidandoli alla custodia amorevole del Padre.
Carissimi Parrocchiani, in questi giorni che rimangono prima del 28 febbraio, ripensiamo al dono che Benedetto XVI ci ha fatto in questi anni in cui ha guidato al largo la “barca” di Pietro. Lasciamo spazio in noi al sentimento della gratitudine per il molto ricevuto e restiamogli spiritualmente vicini con la nostra preghiera, come Egli stesso, ringraziandoci, ci chiede.
Il nostro Vescovo in una sua lettera indirizzata a noi sacerdoti, esprimendo la sua ammirazione per la testimonianza di grande umiltà del Papa, ci invita non solo a pregare per lui, ma anche per noi tutti perché “possiamo essere all’altezza della conversione che il gesto del Papa propone oggi a tutta la comunità cattolica”.

Don Luigi Pedrini

10 Febbraio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  10 Febbraio 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver sostato sulla figura di Giuseppe e sulla figura dei fratelli, così come emergono nella vicenda drammatica del complotto, volgiamo, infine, l’attenzione sulla figura del padre.

Il finale di questa vicenda mette in risalto il dolore di un padre: un dolore immenso, inconsolabile. Forse i figli non si aspettavano di creare una ferita così profonda; una ferita che – come già accennavo – resterà aperta fino alla fine.

Eppure, questo dolore infinito avrà un valore redentivo: i figli, profondamente impressionati dal dolore arrecato al padre, non si sentiranno più di dargli ulteriori dispiaceri.

Comincia, così, ad affiorare quel sentimento di premura e di tenerezza verso il padre che sarà determinante per la rinascita degli affetti in questa famiglia.

Giustamente L. A. Schokel fa notare che “un padre che soffre sarà un punto permanente di riferimento, una forza sommersa di coesione” (L. A. Schokel, Giuseppe e i suoi fratelli, Paideia, 19942, p. 34). E sarà proprio così.

Possiamo concludere questa riflessione sulla scena del complotto aprendo uno spiraglio su Gesù; uno spiraglio del tutto legittimo dal momento che ogni pagina della Bibbia parla di lui.

Nella vicenda di Giuseppe che va in cerca dei fratelli possiamo vedere una prefigurazione di Gesù che ha voluto farsi uomo per venirci incontro: Egli si è presentato tra noi come il buon pastore che va in cerca delle pecore perdute e ferite per riportarle all’ovile e curarle.

Abbiamo rimarcato la prontezza di disponibilità con cui Giuseppe ha accettato di affrontare un viaggio così lungo, di allontanarsi da casa e di avventurarsi su strade sconosciute. Questa disponibilità rende palese – annota giustamente M. I. Rupnik – una grande sicurezza interiore tipica di chi sapendosi molto amato, è profondamente in pace con se stesso (cfr. M. I. Rupnik, Cerco i miei fratelli. Lectio divina su Giuseppe d’Egitto, Lipa, Roma 1998, pp. 31-32).

Anche in questo possiamo scorgere un tratto anticipatore di Gesù: infatti, nella sua disponibilità ad abbassarsi e a umiliarsi fino al punto di rinunciare a presentarsi in mezzo a noi come Dio per assumere una vita in tutto uguale alla nostra, possiamo intravedere la profonda comunione d’amore che lega Gesù al Padre.

Proprio questo amore, sorgente viva di pace, ha spinto Gesù a lasciare la sua ‘casa’, il suo ‘cielo’, cioè la sua condizione divina, per inoltrarsi sui sentieri di questa nostra povera umanità.

Don Luigi Pedrini

3 Febbraio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  03 Febbraio 2013

Carissimi Parrocchiani,

 dopo aver sostato sulla figura di Giuseppe quale emerge nella vicenda drammatica del complotto, ora volgiamo l’attenzione sulla figura dei fratelli.

Essi offrono la chiara immagine di una fraternità lacerata al proprio interno. È vero che in alcuni di loro – Ruben prima, Giuda poi – c’è stato un recupero di amore fraterno: essi si danno pensiero per la vita di Giuseppe e invitano, espressamente, gli altri fratelli a non ucciderlo perché è pur sempre un loro fratello: è della loro carne e del loro sangue. Teniamo presente che per gli ebrei il legame della carne e del sangue costituiva il fondamento primo dell’unità familiare.

Il triste evolversi della vicenda del complotto mette, però, bene in luce tutta la fragilità di questo fondamento: una unione fondata soltanto sul legame della carne e del sangue alla fine non è una garanzia sicura di armonia e di coesione all’interno di una famiglia.

È per questo che Gesù proporrà una nuova fraternità non più fondata sui legami della carne e del sangue, ma sulla fede verso il Padre: “Chi fa la volontà del Padre” – cioè chi ripone in Dio la fiducia e lo ama fino al punto da affidare totalmente a Lui la propria vita – “è per me fratello, sorella e madre”. E’ la fede, unita all’amore verso il Padre, che fonda la fraternità cristiana.

La proposta di Gesù ci sollecita ad una verifica della nostra fraternità; di quella fraternità che siamo chiamati a testimoniare nell’ambito della cerchia familiare come anche nell’ambito della comunità parrocchiale. Che cosa veramente ci unisce? È soltanto un fondamento orizzontale che si radica nella cordialità e nel rispetto umano, oppure è il fondamento verticale della nostra fede cristiana grazie alla quale siamo figli di Dio e, quindi, fratelli fra noi?

La vicenda di Giuseppe insegna che se prevale il fondamento umano nel migliore dei casi vengono fuori le proposte di compromesso di Ruben e Giuda che, però, alla fine non tengono. È necessario, invece, arrivare a volersi bene nel Signore, a riceversi a partire dal Signore.

Questo è il modo cristiano di amarsi e di vivere la comunione reciproca. Vale all’interno della comunità parrocchiale; vale all’interno di quella comunità straordinaria – cellula fondamentale della società e della Chiesa – che è la famiglia.

Ne consegue che cammino della fraternità è proporzionale al nostro cammino di radicamento in Cristo: è la meta di tutta la vita ed è il compimento di quel germe di filiazione donatoci nel battesimo che ci rende famiglia nel Signore.

Don Luigi Pedrini

 

 

27 Gennaio 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo), 27 Gennaio 2013

Carissimi Parrocchiani,

prima di congedarci dal racconto del complotto tramato dai fratelli ai danni di Giuseppe, propongo ancora una pausa riflessiva per ritornare sui protagonisti della vicenda.

Il primo personaggio al quale volgiamo l’attenzione è Giuseppe. L’abbiamo lasciato nell’episodio precedente come un giovane sul quale va delineandosi, alla luce dei sogni, un futuro di guida all’interno della cerchia familiare. Tuttavia, Giuseppe è ancora un giovane inesperto: deve imparare quella sapienza della vita fatta di prudenza, di discrezione, che consente di non sottrarsi davanti alle proprie responsabilità senza, per questo, urtare la sensibilità altrui.

In questo episodio, Giuseppe avvia i primi passi verso la realizzazione di quanto prospettato dai sogni. Infatti, troviamo sulla sua bocca un’espressione che svela per la prima volta la sua vocazione personale. Mentre sta vagando per la campagna senza riuscire a trovare i fratelli, incontra un uomo che gli chiede: “Che cerchi?”. Prontamente, Giuseppe risponde: “Cerco i miei fratelli”.

Queste parole si riferiscono immediatamente alla missione affidatagli da Giacobbe e, quindi, all’assolvimento di un compito che egli, nell’obbedienza al padre, si è assunto. Eppure, la risposta di Giuseppe, sia pure a sua insaputa, è carica di un significato più grande. Giuseppe senza rendersi conto sta camminando proprio nella direzione prospettata dai sogni: egli dovrà essere colui che va alla ricerca dei suoi fratelli, cioè dovrà svolgere in mezzo a loro una missione di unità e di coesione.

È interessante notare che l’avvio di questa missione avviene grazie alla richiesta del padre che incontra la pronta obbedienza di Giuseppe. Certo, alll’origine di questa vocazione sta l’iniziativa di Dio che già si è manifesta tramite i sogni. Tuttavia, la chiamata di Dio è mediata dal mandato del padre che invia il figlio in ricerca dei fratelli. Dunque, Giuseppe ha avuto i sogni quali segni premonitori; la loro realizzazione passa, però, attraverso la concreta mediazione del padre.

Tutto questo ha qualcosa da dire anche al nostro cammino vocazionale. Anche alla radice della nostra vocazione sta, anzitutto, l’iniziativa di Dio e, quindi, il disegno che egli da sempre ha su di noi. Tuttavia, questa iniziativa ha preso corpo nella nostra storia personale grazie alle cura materna della Chiesa che si è espressa tramite le persone che si sono messe al nostro fianco per accompagnarci e per guidarci nel cammino.

Dunque, nella docilità nei confronti della Chiesa ciascuno di noi va realizzando la propria vocazione personale. Obbedendo alla Chiesa noi corrispondiamo al disegno che Dio ha su di noi e realizziamo quel “nome nuovo” che solo Dio conosce e che costituisce la nostra identità.

È quanto rimarcava anche il card. J. Ratzinger nell’omelia funebre tenuta in occasione delle esequie di Giovanni Paolo II. Sottolineava, infatti, che determinante per il cammino di fede fatto da Giovanni Paolo II è stata la sua obbedienza alla Chiesa. Proprio, grazie a questa obbedienza è venuta delineandosi la sua vocazione personale alla quale ha aderito senza riserve. Pertanto, tutta la sua straordinaria vicenda di fede si illumina a partire dal ‘sì’ che ha detto giorno per giorno ad una sola parola: “Seguimi”.

Don Luigi Pedrini