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02 Settembe 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 02 Settembe 2012

Carissimi Parrocchiani,

sostiamo ancora sui versetti già commentati per fare due considerazioni. La prima considerazione ci rimanda al v. 4 del cap. 37: I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente. In questo versetto scopriamo con sorpresa che sono riuniti insieme amore e odio: da una parte, l’amore di Giacobbe; dall’altra, l’odio dei dieci fratelli verso Giuseppe.

Questa singolarità ci conduce ad una constatazione sorprendente: l’amore, paradossalmente, può scatenare l’odio. L’amore che Giuseppe riceve dal padre lo rende odioso agli occhi dei fratelli.

In questo paradosso i commentatori cristiani hanno visto un’anticipazione di Gesù. Infatti, l’incapacità dei fratelli nel parlare amichevolmente a Giuseppe si ritrova anche in Gesù, il figlio prediletto del Padre. Anch’egli odiato e alla fine condannato a morte perché i suoi avversari non accettano di riconoscere in lui il Figlio di Dio, il Figlio prediletto (Mc 14,61-64). Gesù, avendo fatto sempre del bene a tutti, non era reo di alcuna colpa che giustificasse una condanna simile; La sua morte è stata il frutto di una condanna del tutto arbitraria. Gesù stesso ha dichiarato: “Mi hanno odiato senza ragione” (Gv 15,25).

Dunque, sia nella vicenda di Giuseppe, sia nella vicenda di Gesù l’amore, anziché suscitare una risposta d’amore, ha provocato un reazione d’odio. È una stranezza alla quale neanche l’amore di Dio si sottrae. Anzi, questo paradosso si evidenzia ancora di più quando in gioco c’è l’amore di Dio. Mi spiego: l’amore di Dio nei nostri confronti non può che volere per noi il bene, la verità; è un amore che non scende a patti con la menzogna e con il male. Proprio perché non si arrende di fronte al male, ma tutto vuole abbracciare e illuminare, ecco che il male si evidenzia e si ribella. È così che l’amore può condurre all’odio.

In tutto questo mi pare di poter cogliere un insegnamento importante per noi. È illusorio pensare che la testimonianza all’amore che esige la vita cristiana in quanto vita nello spirito di Cristo, che è spirito d’Amore, possa suscitare automaticamente l’amore. Amando si ottiene una risposta d’amore in chi ha un cuore già purificato. Là dove non c’è un cuore limpido, purificato, non si dà immediatamente una risposta d’amore e si rende necessario, in primo luogo, un cammino di purificazione che può passare anche attraverso fasi di ribellione e di odio. L’amore, tuttavia, è capace di vincere tutto questo, facendosene carico e pagando di persona.

I santi confermano tutto questo. Essi, pur testimoniando l’amore verso tutti, hanno incontrato, non di rado e proprio per questo, l’odio del mondo. E, tuttavia, hanno vinto il male, perché l’hanno espiato in se stessi l’hanno vissuto come partecipazione alla croce di Cristo.

Così, la vicenda di Giuseppe ci ricorda che non dobbiamo meravigliarci se nell’amare riceviamo non approvazioni gratificanti, ma critiche e anche opposizioni. La via dell’amore non passa attraverso scorciatoie facili, ma domanda un lungo e paziente cammino di purificazione.

Don Luigi Pedrini

 

26 Agosto 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 26 Agosto 2012

[4]I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente.

 Carissimi Parrocchiani,

ci soffermiamo ora su questo versetto che riferisce la delicata situazione che viene a crearsi tra i figli di Giacobbe.

Stando al testo, la predilezione di Giacobbe per Giuseppe, resa ancora più manifesta dalla veste che gli fa indossare, diventa per gli altri figli qualcosa di irritante e di insopportabile. Ciò che irrita i fratelli non è evidentemente la veste in sé, ma ciò che essa sottintende: la veste lussuosa in fondo incrina l’uguaglianza tra i fratelli e innalza uno al di sopra degli altri.

Il risultato che ne segue è un atteggiamento di avversione: “lo odiavano”. Così traduce la CEI, alludendo al sentimento di rifiuto che i fratelli nutrono verso Giuseppe. L. A. Schokel offre un’altra traduzione (“gettavano odio”), perché secondo lui il verbo allude a qualcosa di più di un semplice sentimento. Propriamente, ad un atteggiamento interiore che è già anticipo di un’azione conseguente. Questo odio è già gravido dei germi del male che, poi, esploderà.

Nel concreto, per ora, questa avversione si esprime all’esterno nella negazione del saluto: negano la “shalom”, la pace. “Non lo salutavano nemmeno”: questo è più precisamente quello che significa l’espressione: non potevano parlargli amichevolmente.

Va tenuto presente che, allora, il saluto aveva una grande importanza e che la negazione poteva significare la rottura della comunione. Da questo punto di vista, il versetto vuole dire che nella casa di Giacobbe si è creata una situazione di divisione, di frattura. È una ferita che si apre e che si approfondirà sempre di più: solo molto tempo, quando avverrà la riconciliazione tra fratelli, essa si rimarginerà.

C’è da dire che il maggior peso di responsabilità di questa situazione cade su Giacobbe che, senza rendersene conto, provoca l’odio degli altri figli nei confronti del figlio prediletto. Tuttavia, chi patisce maggiormente e più immediatamente le conseguenze di questa divisione è Giuseppe. Infatti, i fratelli diventano nemici suoi, non nemici del padre.

Accade spesso che l’odio di chi si sente trattato ingiustamente si diriga non contro chi ha concesso i privilegi ritenuti ingiusti, ma contro chi è stato privilegiato (la vicenda di Caino e Abele lo insegna molto bene).

 

Don Luigi Pedrini

 

 

19 Agosto 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 19 Agosto 2012

Carissimi Parrocchiani,

dopo la pausa dovuta alle ferie estive, riprendiamo le fila del nostro discorso. Ci siamo già soffermati sul v. 2 del capitolo 37 della Genesi che offre un primo spiraglio sulla vita interna della famiglia di Giacobbe; ora, consideriamo i versetti successivi che riferiscono un ulteriore elemento di tensione capace di creare tra i figli di Giacobbe una dolorosa divisione.

 [3]Israele (= è il nuovo nome che Dio ha dato a Giacobbe) amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche.

 La tensione è generata dal fatto che Giuseppe è tra tutti il figlio più caro a Giacobbe, tanto da essere oggetto di un amore preferenziale da parte del padre.

Compare qui il tema della preferenza paterna che, peraltro, già abbiamo incontrato nei capitoli precedenti: pensiamo ad Abele ‘preferito’ da Dio rispetto a Caino; ad Esaù preferito da Isacco rispetto a Giacobbe. Dunque, qui riappare lo stesso tema: Giacobbe predilige Giuseppe tra tutti i suoi figli.

Il testo spiega anche la ragione: Giuseppe “era il figlio avuto in vecchiaia”. E’ una ragione che ha una sua plausibilità: effettivamente, l’esperienza attesta che il padre ha un rapporto speciale con il bambino che gli viene partorito in un tempo in cui la vita comincia a declinare. Tuttavia, questa spiegazione non soddisfa del tutto. Infatti, si potrebbe obiettare che per sé questo dovrebbe chiamare in causa, a maggior ragione, Beniamino, essendo l’ultimo figlio avuto da Giacobbe.

Il testo precisa, inoltre che l’amore preferenziale del padre si è reso manifesto in una distinzione significativa: mentre il resto dei fratelli indossava abiti da lavoro, Giuseppe indossava una veste con le maniche lunghe che gli arrivavano fino ai polsi e con l’orlo che giungeva fino ai piedi. Stando all’indicazione di alcuni testi biblici – come ad esempio 2 Sam. 13,18 – secondo i quali la veste lunga era l’abito proprio della principessa o comunque di una persona di alto grado, possiamo affermare che Giuseppe vestiva in casa sua come un principe. Dobbiamo aggiungere che questa veste fa qui, per la prima volta, la sua comparsa e svolgerà, all’interno di tutta la vicenda, un ruolo molto importante.

Dunque, Giacobbe fa questo regalo al figlio prediletto, un regalo che, chiaramente, tende a innalzare Giuseppe al di sopra degli altri fratelli, non senza ripercussioni al loro interno, come testimonia il versetto immediatamente successivo.

 [4]I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente.

 Ma su questo versetto rifletteremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

05 Agosto 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 05 Agosto 2012

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo iniziato il mese di agosto, tempo tradizionalmente legato a qualche pausa di riposo che ci concediamo dopo un anno di attività. Ho pensato, allora, di lasciare provvisoriamente il commento alla vicenda di Giuseppe per fare qualche considerazione sul tempo delle ferie.

Ho letto che quest’anno il 50 % degli italiani rinuncerà ad andare in vacanza. Questo è, chiaramente, un sintomo della crisi in atto che si fa sentire pesantemente sul bilancio familiare.

Tuttavia, la rinuncia ad andare via non dovrebbe impedire di concedersi ugualmente un tempo di “vacanza”. Condivido pienamente quanto scrive Gian Domenica Bagatin, psicologo e psicoterapeuta a Trieste: “Vacanza è riposo, silenzio, meditazione. Più che momenti liberi, questi spazi sono un’esperienza in cui ciascuno di noi, nel ritmo frenetico del luogo di lavoro o nel momento del ripetersi dei gesti quotidiani, riesce a trovare il bandolo della propria esistenza, a immaginare e sognare nuovi paesaggi”. La vacanza è, dunque, quel momento che dovrebbe permettere di vivere le azioni quotidiane, spesso ripetitive e talvolta monotone, in modo non concitato e inquinato dalla preoccupazione del “fare”, ma “riposato”, con freschezza e creatività.

È possibile anche rimanendo nel proprio ambiente mettere in atto qualche piccolo accorgimento con cui darsi un altro passo che consenta di vivere il quotidiano in una dimensione più tranquilla, che aiuta a stare meglio con se stessi e, quindi, a capire meglio quello che si sta vivendo. Diceva Hetty Hillesum nel suo diario: “A volte siamo così distratti e sconvolti da ciò che ci capita che poi fatichiamo a ritrovarci. Eppure si deve. Non si può affondare in ciò che ci circonda”.

In questi giorni una persona amica mi ha mandato una riflessione sulle vacanze. Già il titolo è significativo: “Dieci consigli utili per una vacanza da cristiani”: vuole richiamare che anche in vacanza il cristiano porta con sé la sua identità. È tempo di stacco dalla vita usuale, ma non tempo di evasione e di disimpegno in rapporto a ciò che è costitutivo della nostra persona.

Tra questi dieci consigli mi sono ritrovato in particolare nell’invito a concedersi in questo tempo qualche buona lettura, mettendosi in ascolto anche di un libro che edifichi lo spirito; inoltre, l’invito a mettere in programma – se appena possibile – la visita ad una cattedrale o a un santuario; come pure, l’invito a non dimenticare il Signore in questo periodo in cui finalmente cade l’obiezione del “non ho tempo” che qualche volta affiora durante l’anno a motivo delle tante occupazioni. Pure degno di nota è la citazione del consiglio che don Bosco dava ai suoi ragazzi, un consiglio lapidario, ma per questo anche molto incisivo: “Stai allegro, divertiti, ma non peccare!”. E da ultimo ho trovato saggio il consiglio di avere attenzione anche per gli altri, specialmente per chi più ci è vicino. Se è vero che le ferie sono l’occasione per concedersi il meritato riposo, non per questo devono diventare un tempo in cui si pensa solo a se stessi. Ricordava giustamente san Josemaria Escrivà che “la santità e l’autentico desiderio di raggiungerla non si concede né soste, né vacanze”. In questo orizzonte a tutti l’augurio di “Buone Ferie”!

Don Luigi Pedrini

 

29 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 29 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

prendendo ora in considerazione la seconda parte del v. 2 del capitolo 37 della Genesi possiamo rivolgere un primo sguardo sulla vita interna della famiglia di Giacobbe.

La prima parte del versetto – Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Essendo ancora giovane, stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre – allude ad un clima di unità e fratellanza che regna tra i figli di Giacobbe. Si ha l’impressione di un quadro di vita pastorale sereno nel quale i fratelli stanno insieme in modo amichevole.

A diciassette anni Giuseppe è un pastorello impegnato nel pascolo del bestiame insieme con i fratelli. Tutti svolgono lo stesso lavoro: sono pastori. Siamo, dunque, di fronte ad un’economia familiare unificata, che viene ad interrompere la differenziazione di mestiere che era presente, invece, nelle famiglie precedenti (cfr: Caino, il cacciatore e Abele, il pastore; Esaù, il cacciatore e Giacobbe, il pastore).

Il versetto riferisce che Giuseppe “stava” con i figli di Bila e di Zilpa. In realtà, sarebbe più corretto tradurre: “Giuseppe aiutava i figli di Bila e di Zilpa”. Infatti, il testo vuole evidenziare che Giuseppe si colloca su un piano di inferiorità rispetto ai fratelli: la sua giovane età fa sì che egli svolga dei compiti secondari. Egli è ancora un apprendista pastore, un ‘aiutante’ (na’ar).

Ma ecco l’ultima parte del versetto 2: Ora Giuseppe riferì al loro padre di chiacchiere maligne su di loro.

Queste parole rivelano un aspetto un po’ singolare della personalità di Giuseppe. Se da una parte è un giovane ancora inesperto, tuttavia, possiede una certa scioltezza o – forse più giustamente – ingenuità nel parlare. Così, diventa un informatore di notizie presso il padre.

Va notato che la traduzione ufficiale della Chiesa italiana (CEI) parla di “chiacchiere maligne su di loro”. Un autorevole commentatore – A. Schokel – preferisce usare l’espressione “cattive informazioni”, precisando che non devono essere intese come diffamazioni e ancor meno come calunnie.

Ad ogni modo, il testo sembra propenso a valutare il parlare di Giuseppe come qualcosa di inopportuno, frutto di ingenuità giovanile, pur essendo un parlare libero da cattive intenzioni. Sta di fatto che questo particolare introduce tra i fratelli un elemento di tensione.

Don Luigi Pedrini

23 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 23 Luglio 2012

[1]Giacobbe si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero, nel paese di Canaan. Giuseppe e i suoi fratelli

[2]Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane e stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre. Ora Giuseppe riferì al loro padre i pettegolezzi sul loro conto.

[3]Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche.

[4]I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente.

Carissimi Parrocchiani,

dopo le necessarie premesse introduttive, è ora tempo di introdurci nella storia di Giuseppe. I primi quattro versetti del cap. 37 fanno luce sul contesto da cui essa prende avvio. Anzitutto, riferiscono il luogo in cui vive la famiglia di Giacobbe e indicano in Giuseppe il nuovo protagonista degli avvenimenti; in secondo luogo, aprono una finestra sulla vita interna di questa famiglia.

Quanto al luogo si precisa che Giacobbe si stabilisce nel paese di Canaan, il paese in cui Abramo e Isacco avevano soggiornato da nomadi. Ora, Giacobbe vi risiede in modo stabile. Dunque, la terra di Canaan che fino ad allora era stata per i patriarchi una terra di passaggio, diventa, da questo momento, una terra stabile. D’ora innanzi, la vita dei patriarchi, da nomade, si fa sedentaria.

Le parole scarne – Giuseppe e i suoi fratelli. Questa è la storia della discendenza di Giacobbe – lasciano intendere che d’ora innanzi l’attenzione si concentra interamente sulla famiglia di Giacobbe. L’attenzione su Giacobbbe e il corrispettivo silenzio su Esaù e la sua famiglia stanno a dire che Giacobbe è l’erede patriarcale che porta avanti legittimamente la discendenza di Abramo e la promessa di benedizione ricevuta da Dio.

Inizia qui la storia di questa famiglia: è lei il soggetto che sta sullo sfondo del dipanarsi dei vari avvenimenti. Un noto biblista (H. Gunkel), constatando che tutto il racconto si costruisce attorno a questo nucleo familiare, ha proposto di intitolare i capitoli della Genesi che vanno dal 37 al 50 come “storia di una famiglia”. A rigor di termini, questa proposta appare un po’ eccessiva, perché poi nel testo ci sono anche degli spezzoni di racconto che esulano da questo filone (come, ad esempio, il racconto della seduttrice che si vendica o di Giuseppe innocente messo in carcere e, poi, liberato…). E, tuttavia, ha una sua pertinenza: i cap. 37-50 sono anche una storia di famiglia, ci parlano di una famiglia lacerata dall’invidia e dall’odio, tragicamente divisa, che attraversa dure prove e tribolazioni e che, alla fine, giunge ad un’inattesa riconciliazione.

Circa la finestra aperta dai versetti 2-4 sulla situazione interna di questa famiglia vedremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

 

15 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 15 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

la settimana scorsa concludevo affermando che la storia di Giuseppe, anche se a uno sguardo immediato non appare, è tuttavia profondamente religiosa, al punto da poter affermare che proprio la fede in un Dio che anima ogni singolo avvenimento costituisce la ‘roccia’ del pellegrinaggio di fede di Giuseppe.

Due testi sono profondamente rivelatori al riguardo.

Anzitutto, Gen. 40,8 dove compare per la prima volta sulla bocca di Giuseppe la menzione di Dio. Giuseppe si trova in prigione; nella cella con lui ci sono il coppiere e il panettiere del faraone; tutti e due fanno un sogno e sono in angustia perché non sanno interpretarne il significato. Giuseppe interviene e dà la spiegazione dei due sogni. Ma ciò che a noi interessa è l’affermazione iniziale di Giuseppe. Dichiara: Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni? Queste parole testimoniano che Giuseppe ha acquisito la sapienza di interpretare i sogni, di interpretare cioè il vissuto interiore di una persona, di cui il sogno è espressione. Tuttavia, Giuseppe riconduce questa sapienza a Dio, il vero sapiente che conosce il cuore dell’uomo e che può aiutare ciascuno a penetrare il cuore, a capire chi siamo e dove stiamo andando.

Più importante e rivelativo è Gen. 45,3-8 che riferisce le parole di Giuseppe nel momento in cui si fa riconoscere dai fratelli. Nulla nel contesto lascerebbe prevedere una rivelazione del genere. I fratelli sono da Giuseppe, colui che in Egitto è secondo soltanto al faraone, gli si prostrano davanti e devono rispondere all’accusa di furto della coppa di Giuseppe, che è stata scoperta nella sacca di Beniamino. L’accusa di Giuseppe sembra il preludio di una gravosa punizione. E, invece, la tensione si scioglie improvvisamente. Giuseppe manda via i servi e piangendo, si fa conoscere a loro ed esclama: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello… Dio mi ha mandato qui per conservarvi in vita”. Per tre volte Giuseppe afferma che è stato Dio a “mandarlo” in Egitto al fine di beneficare i suoi familiari: Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio…

“Dio mi ha mandato”: dunque, per Giuseppe, determinante in tutta la sua intricata e sofferta vicenda è l’iniziativa di Dio. Il punto prospettico dal quale egli rilegge l’intera vicenda non è la tresca meschina messa in atto dai fratelli, ma l’iniziativa di Dio che si è servito di quella triste vicenda per attuare un disegno di provvidenza che abbraccia tutta la sua famiglia e, ultimamente, il popolo di Israele.

Giuseppe vive di questa roccia. Da qui scaturisce in lui la capacità di non censurare nulla della sua storia, di non rimuoverla, ma di rileggere ogni avvenimento all’interno di un disegno armonico e provvidente. Per questa strada egli giunge alla scoperta fino di quel ‘nome’ che Dio ha in serbo per lui, cioè della sua ‘vocazione personale’: quella di restituire i suoi fratelli al dono della fraternità riconciliata.

Don Luigi Pedrini

 

08 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 08 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

c’è ancora una premessa su cui è importante soffermarci prima di entrare nella vicenda di Giuseppe.

Al riguardo, prendo le mosse da un testo che si trova nel vangelo di Matteo nel quale Gesù, concludendo un lungo insegnamento impartito ai discepoli – il cosiddetto ‘Discorso della montagna’ – afferma: Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la casa sulla roccia” (Mt 7,24).

Alla luce di queste parole con cui Gesù ricorda che ogni cammino di fede per reggere deve edificarsi sulla roccia, ci domandiamo: qual’è la roccia sulla quale si è edificato il pellegrinaggio di Giuseppe e che gli ha consentito di essere non un ‘fuggitivo’, ma un vero ‘pellegrino’, uno che sapeva da dove la sua vita era partita, dove voleva andare, dove in sostanza la sua vita trovava consistenza e stabilità? Esiste, davvero, in questa vicenda – che è segnata da contrasti fortissimi e da inaspettati cambi di scena al limite dell’assurdità – questa roccia che l’ha riscattata dalla frammentarietà e dall’assurdità, l’ha resa sensata e unitaria, facendo di Giuseppe il credente che vive interamente appoggiato a Dio e che interpreta la sua drammatica vicenda a partire da Lui? Se esiste, dove affiora? Come viene descritta?

Non è facile rispondere a queste domande, non solo perché la storia di Giuseppe è complessa, ma anche perché – come hanno fatto notare alcuni esegeti – essa appare quasi una “storia laica”. Così, si legge in un commentario di questa vicenda: “La storia di Giuseppe si distingue per una mondanità rivoluzionaria, una mondanità che descrive tutto l’ambito della vita umana, tutte le sue sublimità e profondità con un realismo per niente moralistico” (Negretti – Westermann – Von Rad, Gli inizi della nostra storia, Torino, Marietti, 1974, p. 138).

In effetti, in questa storia non troviamo visioni di Dio, né dialoghi, né promesse, come nella vicenda di Abramo; non c’è nessuna apparizione di angeli o descrizioni di esperienze di preghiera, come nella vicenda di Giacobbe. Non troviamo, neppure, i ‘gesti’ di preghiera presenti nella vita di Abramo (che costruisce in diverse occasioni un altare per il Signore); e anche nella vita di Giacobbe (che innalza una stele per far memoria di Dio).

Certamente, questa assenza appare sorprendente, tanto più se si tiene conto che non sono mancati nella vicenda di Giuseppe momenti veramente drammatici (come quando Giuseppe si ritrova abbandonato in fondo ad un pozzo, oppure in prigione).

Tuttavia, la storia di Giuseppe è profondamente religiosa: è vero che in essa si parla poco di Dio, ma la ragione è che Dio è percepito come una presenza che anima ogni avvenimento e che avvolge tutto. Proprio questa fede in un Dio onnipresente e fedele costituisce la roccia del pellegrinaggio interiore di Giuseppe. Ne danno conferma due testi particolarmente rivelativi. Ma su questo ci soffermeremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

01 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 01 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

prima di entrare nella vicenda Giuseppe, voglio dire una parola sul nostro pellegrinaggio di fede. Concludevo, l’ultima volta, dicendo che nel pellegrinaggio intcriore di Giuseppe possiamo leggere qualcosa anche del nostro cammino di fede. Tuttavia, dobbiamo aggiungere che il nostro pellegrinaggio, pur presentando delle costanti comuni a tutti, rimane molto personale. Ne deriva che ciascuno ha il suo pellegrinaggio da fare; un pellegrinaggio unico, originale, insostituibile, che affonda le radici nella liberalità del disegno di Dio su di noi per cui Egli chiama a una certa missione “chi” vuole e “come” vuole.

Questa liberalità di Dio si riscontra in tutto il libro della Genesi e anche nella vicenda di Giuseppe. Così, ad esempio, ritornando all’accenno che ho fatto sulle Toledot, se noi andiamo a leggere attentamente a questo riguardo il libro della Genesi, scopriamo che ci sono famiglie “scelte” da Dio e che entrano a pieno titolo nella discendenza “ufficiale” di Israele, quella cioè che costituirà la linea dividica da cui nascerà Gesù, e ci sono famiglie che passano in ombra per scomparire, poi, completamente. Accade, così, che nella discendenza di Isacco la famiglia di Giacobbe entra nel solco della promessa di Abramo, mentre quella di Esaù a un certo punto scompare; , ugualmente, in precedenza, nel solco della promessa era entrato Isacco e non Ismaele.

Dunque, dobbiamo prendere atto di questo fatto strano, almeno a prima vista: qualcuno viene scelto; qualcun altro messo da parte; Dio è padre di tutti – come la Scrittura testimonia – e, tuttavia, sceglie alcuni e non altri; ama tutti indistintamente, ma elegge qualcuno sugli altri e, così, sceglie Isacco e non Ismaele; Giacobbe e non Esaù; il popolo di Israele e non l’Egitto…

Anche la storia di Giuseppe presenta questo paradosso. È la storia di una famiglia in cui i fratelli si dividono tra loro perché non accettano che Dio usi delle “preferenze” nei loro confronti. Vorrebbero essere trattati tutti allo stesso modo.

In realtà, dietro questa aspettativa, sta la pretesa di voler imporre a Dio la “non scelta”, una generica uniformità nel suo rapportarsi con loro. E, invece, l’amore di Dio non è mai un generico voler bene anonimo e uniforme: è un voler bene “personale” che suscita, pertanto, delle differenze.

La vicenda di Giuseppe ci mette di fronte a dodici fratelli diversi: ciascuno ha la propria storia, ha un modo personale di rapportarsi a Dio e anche Dio nel rapportarsi con ciascuno ha rispetto per la sua originalità.

In questa prospettiva, ascoltando questa storia, noi vedremo prendere risalto il tema della “runica dalle lunghe maniche”, una tunica cucita da Giacobbe stesso per Giuseppe ed espressione dell’amore di predilezione che ha per lui. Attorno a questa tunica si costruisce tutta la vicenda.

Questa tunica è simbolo dell’amore personale con cui Dio ama ogni suo figlio; è rimando a quel è “nome nuovo” che solo Dio conosce e che con assoluta libertà vuole donare e svelare a ciascuno. Così ognuno di noi pensando a Giuseppe può pensare alla “tunica” che ha ricevuto da Dio, espressione dell’amore personale con cui Dio ama ciascuno. Egli ama tutte le persone che conosciamo, tra le quali ci sono anche persone anche più brave di noi. Eppure, il Signore ha scelto noi per la strada che stiamo percorrendo e questo è frutto semplicemente della sua liberalità.

Don Luigi Pedrini

24 Giugno 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 24 Giugno 2012

Carissimi Parrocchiani,

come accennavo la settimana scorsa, il racconto della vicenda di Giuseppe appartiene all’ultima storia familiare (toledòt) narrata nel libro della Genesi. Ed è una storia esemplare.

 Le storie precedenti non offrono sempre nel loro soggetto più rappresentativo un comportamento esemplare: si pensi al comportamento riprovevole assunto da Abramo in Egitto, alla corte del faraone, nel tentativo di salvare la propria vita; si pensi alle diverse astuzie messe in atto da Giacobbe pur di raggiungere quanto gli stava a cuore.

 Giuseppe, invece, secondo la tradizione biblica, incarna l’immagine dell’uomo di cui Dio si compiace: onesto, leale nell’assolvere i propri doveri, trasparente nei comportamenti, capace di perdonare; accorto nell’amministrare i beni terreni… Giuseppe realizza in modo esemplare la figura biblica dell’uomo timorato del Signore.

 La tradizione cristiana, da parte sua, ha visto Giuseppe come una delle prefigurazioni più significative di Gesù, in quanto artefice di riconciliazione con Dio, con i fratelli, con le cose. I Padri, in particolare, hanno letto alcuni episodi della sua vita come anticipazioni profetiche di Gesù. Così, ad esempio, in Giuseppe rifiutato dai fratelli hanno visto prefigurato Gesù pure rifiutato dai “suoi”, come attesta san Giovanni nel suo Vangelo: “Venne tra i suoi,e i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11); in Giuseppe venduto dai fratelli hanno visto la prefigurazione di Gesù venduto da uno degli apostoli; in Giuseppe, fratello rifiutato che diventa il perno della rinascita della sua famiglia hanno visto Gesù quale pietra scartata che diventa pietra d’angolo della grande famiglia della Chiesa, nella quale tutti ci riconosciamo fratelli.

 Ma forse l’aspetto più avvincente di tutta la vicenda sta nel fatto che Giuseppe è giunto a questo vertice di perfezione attraverso un lungo cammino di purificazione e di maturazione di fede: infatti, all’inizio del racconto noi incontriamo un giovincello piuttosto ingenuo, forse anche un po’ viziato; alla fine, scopriamo in Giuseppe la figura dell’uomo saggio, pienamente aperto a Dio e insieme dedito ai fratelli. Tra queste due immagini, a fare come da ponte, c’è un lungo e paziente pellegrinaggio umano e spirituale che l’ha portato a diventare un uomo di fede e un testimone del volto misericordioso di Dio.

 Nella riflessione che intendo proporre vorrei far luce sul pellegrinaggio interiore di Giuseppe: vi si può leggere qualcosa del cammino di fede di ogni credente e, quindi, anche del nostro.

 

Don Luigi Pedrini