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17 Agosto 2014

San Leonardo Confessore (Linarolo), 17 Ago 2014

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver contemplato il dinamismo interiore che traspare negli sguardi e nei gesti di Gesù e di Maria, contempliamo ora la bellezza che si irradia dalle loro vesti.

Osserviamo, anzitutto le vesti di Gesù. Egli indossa una tunica azzurra, per significare che il Figlio di Dio si è rivestito della nostra umanità. Essa è il corredo che Dio Padre ha voluto riservare al suo Figlio e sarà anche il dono prezioso che il Figlio farà al Padre: nella sua esistenza terrena non ha offerto – come spiega bene la Lettera agli Ebrei – “olocausti o sacrifici”, ma la propria vita in totale obbedienza al Padre: “Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,5-10). Oltre alla tunica, anche un ampio manto riveste Gesù. Scende dalla sua spalla, avvolge i fianchi e le gambe lasciando scoperti i piedi. Il suo colore è caldo, un arancio vivace, intarsiato di lamine d’oro: questo particolare vuole manifestare Gesù come il Messia, il re della storia, “tutto ammantato di gloria”, come si legge nel salmo 93,1. Sta assiso sul trono più nobile che è Maria stessa che lo tiene nelle sua braccia. Lo rimarca il famoso inno Akatisthos, affermando che “in Lei fu elevato il trono del Re: è una donna il trono più santo del trono dei cherubini, il seggio più bello del seggio dei serafini”.

Osserviamo, ora, le vesti di Maria rivelano la sua bellezza interiore e la sua dignità. Maria è avvolta in un mantello di porpora scura, il marphòrion, che era l’abito solenne delle imperatrici bizantine. Così, l’icona vuole evidenziare la regalità della Vergine in quanto Madre del Re dei re e nostra dolce Madre e Regina. Il mantello è ornato di una ricca bordatura dorata per significare lo splendore di grazia di cui è stata rivestita da Dio. La tinta del mantello, così simile alla terra, vuole ricordare che Maria “tutta santa” è della nostra stirpe, così che noi possiamo sentirla vicina, come sorella, come madre. Notiamo anche che sulla fronte e sulla  spalla destra brillano due delle tre stelle che adornano il mantello: rimandano al cuore verginale di Maria che si è reso interamente disponibile per il Signore. Il mantello, avvolgendo totalmente Maria nasconde la tunica che indossa. Lascia, però, intravedere il velo che avvolge il suo capo. Il colore di questo velo si avvicina molto a quello della tunica di Gesù per dire che tra Madre e Figlio c’è una profonda comunione di pensieri.

Ma ora è tempo di concludere questa descrizione dell’icona. Giunti al termine, penso che tutti noi ci siamo resi conto, non senza meraviglia, che nessun dettaglio è improvvisato. Ogni particolare lascia trasparire qualcosa della bellezza di Dio, la bellezza vera che sa conquistare il cuore dell’uomo, perché non insegua bellezze vacue, ma si incammini verso la vita vera e si salvi.

“Quale bellezza salverà il mondo?” chiede Ippolit, un uomo ateo, al principe Myskin nel romanzo L’idiota di Dostoevskij. L’icona nel suo silenzio muto e eloquente nello stesso tempo  offre una risposta inequivocabile. Possiamo esprimerla con le parole di sant’Agostino: è “la bellezza tanto antico e tanto nuova” che scaturisce dalla tenerezza di Dio e che ci raggiunge attraverso tante strade. Tra queste, Maria è certamente una delle strade maestre…

don Luigi Pedrini

08 Ago 2014

San Leonardo Confessore (Linarolo), 08 Ago 2014

Carissimi Parrocchiani,

proseguendo nella nostra contemplazione dell’Icona, ora, poniamo attenzione al dinamismo che anima sia Maria, sia il Bambino Gesù. Tale dinamismo è evidenziato, anzitutto, dal congiungersi dei loro volti: Le guance del Figlio e della Madre si incontrano in una tenera e commovente vicinanza e sembrano scambiarsi reciproche confidenze e segreti (Suor Nadia Maria Zambetti, op. cit., p. 34).

Anche i loro sguardi, profondi e sereni, concorrono a dare dinamismo all’Icona. Lo sguardo di Gesù è rivolto alla Madre: è uno sguardo interamente rapito da lei. Viene in mente lo sguardo fiducioso e pieno di attesa con quale il salmo 123(122) invita a rivolgersi a Dio nella preghiera: A te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli. Ecco come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni, come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona, così i nostri occhi al Signore nostro Dio… Lo sguardo della madre, invece, è proteso verso noi ed esprime comprensione e accoglienza. Vi traspare anche un senso di grande nobiltà e di viva consapevolezza del mistero divino che va compenetrando la sua vita.

Pure la posa delle mani conferisce dinamismo alla raffigurazione e dà parola al messaggio di tenerezza e di compassione che l’Icona vuole comunicare: “le mani di Maria, leggiadre e affusolate, sono raccolte attorno al Figlio e formano quasi una coppa, un vaso sacro per il Verbo fatto carne che ella offre a Dio e che indica a tutti i fedeli come sicura via di salvezza” (Ibidem, p. 35). Gesù, invece, con la mano destra accarezza il volto di Maria; mentre, con la mano sinistra stringe l’ampio mantello (marphòrion) di cui è interamente rivestita.

Un’ultima nota a proposito dei gesti. La nostra Icona, che appartiene al modello della Vergine della Tenerezza (Eléusa), non raffigura – a differenza dell’altro modello non meno diffuso, quello della Vergine Odighitria – il Bambino nell’atto di impartire la benedizione. Eppure, anch’essa trasmette a suo modo un messaggio di benedizione. Cedo ancora la parola Suor Nadia Maria che annota così: Qui la benedizione di Dio è una carezza lieve che si posa sulla nostra tristezza, è una carezza che asciuga le nostre lacrime e che ci invita a cantare l’eterna misericordia di Dio. È un concreto evento della fede: la misericordia di cui abbiamo bisogno entra in noi per la via della tenerezza e arriva dritta al cuore per fasciare le antiche ferite, per guarire ogni nostra miseria, per confermare la nostra decisione di essere discepoli di Cristo Gesù… In questa Icona la misericordia di Dio sorride agli umili: Gesù amico misericordioso della nostra fragile umanità, e Maria, Madre di misericordia, si lasciano trovare da noi, stanchi e affaticati, e diventano rifugio soave e dolce per ogni uomo (Ibidem).

Don Luigi Pedrini

27 Luglio 2014

San Leonardo Confessore (Linarolo), 27 Luglio 2014

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver fatto alcune osservazioni circa lo sfondo dell’icona, ora rivolgiamo l’attenzione alle figure rappresentate: Maria e il Bambino Gesù. Per disporci a questo con uno spirito aperto e anche carico di attesa ci può aiutare quanto Georges Gherib, uno dei più noti studiosi di icone, ha scritto a proposito di questa immagine: “Davanti a questa icona si resta estasiati. Non si sa se ammirare di più l’intensità dei sentimenti espressi o la straordinaria fattura artistica. Va classificata come opera di profonda spiritualità e certamente uno dei dipinti più belli della Madonna che ci siano pervenuti”.

            Osservando, anzitutto, i volti constatiamo la grande somiglianza tra la Madre e il Bambino. È un particolare significativo che vuole confermare la vera umanità di Gesù e la vera maternità di Maria. Annota al riguardo Teodoro Studita, un antico scrittore ecclesiastico: “Dato che Cristo è nato dal Padre invisibile, egli non può avere immagine… Ma dal momento che egli è nato da Madre visibile, egli ha naturalmente un’immagine che corrisponde a quella della Madre”.

Il volto di Maria è un ovale perfetto; il naso è allungato allo scopo di conferire al volto una maggiore finezza; la bocca è sottile e stretta, chiusa in un silenzio riverenziale nei confronti del Mistero di Dio presente nel Figlio che tiene tra le braccia. Gli occhi scuri sembrano protendersi verso l’infinito come per accogliere gli sguardi imploranti di chi guarda l’icona e offrire  misericordia e perdono. Le orecchie sono visibili come segno di disponibilità ad ascoltare la Parola di Dio. La fronte è spaziosa a significare che Maria custodisce e medita tutto ciò che riguarda Gesù.

Il volto di Gesù non ha nulla di infantile e lascia trasparire la viva consapevolezza della missione che deve svolgere. Gli occhi sono rivolti alla Madre ed esprimono compassione e misericordia verso l’umanità che egli affiderà alla cura materna di Maria. Le labbra sono piccole, ormai pronte ad annunciare la perenne novità del Vangelo. Le orecchie, lasciate scoperte da una folta capigliatura, sono disponibili ad accogliere quanto il Padre gli dirà.

I volti raffigurati costituiscono il ‘cuore’ dell’icona e comprensibilmente se si considera che l’icona è nata, storicamente, per soddisfare il desiderio dell’uomo di vedere il volto di Dio. Gesù, in quanto immagine visibile del Dio invisibile, può soddisfare questo desiderio.

Da questo punto di vista, si può dire che l’icona è prima di tutto un volto da guardare e dal quale lasciarci guardare. Questo spiega perché essa valorizza normalmente la rappresentazione frontale dei personaggi, proprio perché mira ad intessere una sorta di dialogo tra la figura rappresentata e colui che la contempla.

La bellezza del volto della Vergine e del Bambino vuole essere un rimando alla bellezza originaria dell’uomo all’indomani della creazione: l’uomo che è dotato di un corpo esteriore e che, nello stesso tempo, è stato pensato per la comunione, l’intimità, la condivisione, la tenerezza.

Don Luigi Pedrini

20 Luglio 2014

San Leonardo Confessore (Linarolo), 20 Luglio 2014

Carissimi Parrocchiani,

rimaniamo ancora a contemplare lo sfondo dorato dell’icona per richiamare l’attenzione su due ultimi particolari.

Anzitutto, notiamo che il volto della Madre e del Figlio sono circondati dalle aureole e che quella del Figlio si sovrappone a quella della Madre.

L’aureola di Gesù sta a significare la sua natura divina e la vittoria che ha riportato sul male e sulla morte. Lo ricorda bene la Lettera agli Ebrei quando afferma che noi ora vediamo Gesù “coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli sperimentasse la morte a vantaggio di tutti” (Eb 2,9).

L’aureola di Maria sta a significare la sua partecipazione alla vita divina grazie alla fede con cui ha accolto su di sé il disegno di Dio.

Possiamo notare anche un secondo particolare: molto vicino ai contorni delle aureole sono scritti i nomi delle figure rappresentate. In questo modo, a chi contempla l’icona è data la possibilità di sapere chi sono le persone che può incontrare e venerare proprio attraverso l’icona. L’identità delle due figure è svelata da due abbreviazioni in lingua greca: MP ΘÝ, la “Madre di Dio”; IΣ XΣ, Gesù Cristo.

Il nome di Gesù Cristo rimanda a Gesù di Nazaret che nella fede riconosciamo come Messia e Figlio di Dio che per amore nostro si è fatto uomo e ha dato sulla croce la sua vita per noi. Per questa ragione, all’interno dell’aureola, è disegnata una croce nella quale spesso gli iconografi scrivono il tetragramma del nome di Dio rivelato a suo tempo a Mosè: O ΩN, “Colui che è”. Il messaggio che l’icona vuol fare passare è evidente: il significato del nome  misterioso con cui Dio si è rivelato a Mosè ora è reso manifesto da Gesù. Il velo che gravava su quel nome e che lo rendeva per noi un enigma, ora finalmente è tolto: Gesù è il rivelatore definitivo e compiuto del nome di Dio; in Lui, ci è dato di conoscere veramente Dio per quello che è.

Maria, invece, è designata con il nome di Madre di Dio: MP ΘÝ. Questo particolare si ritrova in tutte le icone della Vergine e può essere letto come “il silenzioso ed eloquente annuncio del grande e inaspettato mistero di tenerezza e di misericordia che si è realizzato in Maria di Nazareth” (Suor Nadiamaria Zambetti, op. cit., p. 33).

 

Don Luigi Pedrini

06 Giugno 2014

Carissimi Parrocchiani

riprendo la riflessione avviata sul significato dell’icona per dedicare, poi, un’attenzione specifica all’icona della “Vergine della tenerezza” che abbiamo collocato nella nostra chiesa.

Già ho ricordato che all’origine dell’icona sta il mistero dell’Incarnazione. Dal momento che Dio, facendosi uomo, si è fatto visibile ai nostri occhi, noi ora lo possiamo rappresentare dandogli un “volto”. Proprio questa considerazione ha portato la Chiesa ha prendere le distanze da una convinzione giudaizzante che aveva influenzato anche le prime comunità cristiane. Tale concezione, richiamandosi a quanto di legge in Es 20,4: “Non ti farai idolo né immagine alcuna”, sosteneva che fare immagini religiose è illegittimo e contrario alla fede. Nell’anno 787 la Chiesa, riunitasi in Concilio a Nicea, ha preso ufficialmente e autorevolmente le distanze da questa posizione, affermando la legittimità del culto delle immagini. Così Ireneo, un padre della Chiesa, giustifica tale risoluzione: “Il Verbo incarnato è diventato l’immagine visibile del Padre invisibile. È per questo che può essere rappresentato attraverso la pittura”.

Da questo momento inizia il culto legato all’immagine sacra dell’icona e si afferma anche la figura dell’iconografo, colui che dipinge le icone. Generalmente è un monaco o un sacerdote; non mancano, però, anche laici con una vita cristiana esemplare.

L’iconografo si propone di realizzare il suo lavoro artistico con la preghiera e con un digiuno riguardante sia il cibo, sia lo sguardo. Questa sobrietà può sorprendere, ma è la condizione che gli consente di concentrarsi meglio sull’immagine religiosa che vuole rappresentare. In questo modo, l’icona è la materializzazione dell’intensa esperienza di Dio vissuta nella preghiera e nella penitenza.

Così, il Concilio di Nicea tratteggia la fisionomia spirituale dell’iconografo: “Il pittore deve essere pieno di modestia, di dolcezza e di pietà. Eviterà costantemente i discorsi vani, o poco seri. Dovrà avere un carattere pacifico che ignori l’ira e l’invidia. Prima di ogni cosa dovrà conservare con scrupolosa attenzione la purezza spirituale e corporale”.

Naturalmente, oltre ad essere un uomo di Dio, si richiede all’iconografo di essere un uomo dotato dal punto di vista artistico, allo scopo di evitare che l’incapacità e l’incompetenza rechi offesa a Dio. Inoltre, egli deve sottomettersi a un insieme di leggi precise e severe trasmesse dalla tradizione. Ancora il Concilio di Nicea annota al riguardo: “Fare icone non è invenzione di pittori, ma approvata legislazione e tradizione della Chiesa cattolica… Al pittore spetta soltanto l’esecuzione concreta, ma è chiaro che la disposizione spetta ai santi padri”. Dunque, il compito di maestranza è della Chiesa, quello dell’esecuzione concreta del progetto è dell’iconografo. In questo modo, l’arte dell’icona è assoggettata al controllo della Chiesa che deve garantire la fedeltà alla tradizione.

            Don Luigi Pedrini

29 Giugno 2014

Carissimi Parrocchiani,

dopo alcune note introduttive sul significato dell’icona in generale, vogliamo ora porre attenzione all’immagine della “Vergine della Tenerezza” che abbiamo collocato nella nostra chiesa.

Ci aiutano a metterci in sintonia con quest’opera le parole del Salmo 131, parole con cui da secoli pregano il popolo di Israele e la Chiesa: “Signore, non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano in alto; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me. Io invece resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia. In effetti, guardando all’icona raffigurante la Vergine che sorregge in braccio il bambino Gesù nell’atto di stringersi a lei e di sfiorarle la guancia col volto si percepisce qualcosa della quiete e serenità a cui allude il Salmo. Su questa icona – scrive Suor Nadiamaria Zambetti – sembra caduto un riflesso di Paradiso e il nostro sguardo si sottomette volentieri a tanta bellezza” (in P. Ferrario, Nelle braccia della tenerezza, Ediz. Biblioteca Francescana, Milano 2009, p. 30).

Questa immagine della Vergine appartiene a un modello (“canone”) iconografico che in lingua greca si chiama “Eleùsa” (in lingua russa “Umilenie”) e che si traduce generalmente con il termine “tenerezza”: questo termine, riferendosi alle cose di Dio, è strettamente imparentato alla misericordia. Per tale ragione, il nome completo di questa icona è “Icona della Madre di Dio, Madre della Tenerezza e Signora della Misericordia”. Si tratta di un modello iconografico molto antico che ha avuto una notevole diffusione nel secolo XI: probabilmente, il bisogno di una rappresentazione più evidente della tenerezza misericordiosa di Dio, ha fatto sì che questa icona fosse in profonda sintonia con il clima spirituale dell’epoca.

Possiamo notare che l’icona nei suoi tratti fondamentali è semplice ed essenziale: il suo intento è di orientare l’attenzione e la devozione del credente non su dettagli secondari, ma su ciò che davvero è importante. Secondo la tradizione, questa icona vuole visibilizzare il momento in cui Maria, presagendo – anche alla luce della profezia Simeone: “Egli (Gesù) è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione e anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,34-35) – il mistero della Passione del Figlio, rinnova il ‘sì’ pronunciato nel momento dell’Annunciazione, quando offrendo a Dio la sua totale disponibilità, aveva detto: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,37). Ora, Maria con la stessa disponibilità, accoglie in sé il destino del Figlio sofferente e lo avvolge con tutta la tenerezza di cui è capace una madre. Così, questa icona rivela l’infinita misericordia di Dio verso tutte le sue creature.

“In questa luce – scrive ancora Suornadia Maria” – si spiega l’enorme diffusione di questa tipologia iconografica: tutti abbiamo bisogno di tenerezza e Dio ce la dona per la continua ed efficace implorazione della Madre sua madre nostra, che ha conosciuto personalmente la spada del dolore e il peso della croce e, quindi, può comprendere ogni umano patire” (p. 31).

Don Luigi Pedrini

25 Maggio 2014

San Leonardo Confessore (Linarolo), 25 Maggio 2014

Carissimi Parrocchiani,

oggi nella S. Messa delle ore 11.00 verrà benedetta l’icona della Vergine della Tenerezza che sarà collocata nella nostra Chiesa e resa disponibile per la nostra devozione e preghiera. Davanti a questa icona celebreremo venerdì sera – quale conclusione del mese di maggio – le Lodi di Maria con il solenne Inno dell’ “Akathistòs”.
È un inno molto antico composto tra il 5° e 6° secolo dopo Cristo ed è un testo molto ricco sotto ogni aspetto: contenutistico, poetico, musicale. Con la bellezza di questa preghiera la Chiesa vuole aiutare ogni cristiano a pregustare, attraverso una sorta di anticipazione, la bellezza del Paradiso.
Il tema centrale dell’inno ruota attorno all’acclamazione “Ave, Vergine e Sposa” che ricorre continuamente. Con queste parole vuole ricordare un’affermazione fondamentale della fede cristiana: l’immacolata verginità di Maria.
La preghiera inizia con un rito preparatorio costituito da un’invocazione, dalla recita di un salmo, da una supplica per chiedere al Signore il suo perdono e la sua protezione su tutti gli uomini e, infine, dalla lettura del Vangelo dell’Annunciazione che è l’evento originario della nostra salvezza.
Inizia, quindi, l’inno vero e proprio che si compone di 24 strofe (“stanze”). Ogni strofa inizia con una delle 24 lettere dell’alfabeto greco. L’inno è diviso in due parti di 12 strofe ciascuna. La prima parte racconta gli avvenimenti fondamentali della vita di Maria. La seconda parte è una meditazione teologica sul mistero dell’incarnazione che rende unica la maternità e il ruolo di Maria. Dopo ogni strofa dispari si acclama Maria come Vergine e Sposa; dopo ogni strofa dispari si canta l’Alleluia.
L’inno è introdotto da un proemio e concluso da un epilogo nei quali è presentato lo stupore dell’arcangelo Gabriele di fronte al mistero dell’Incarnazione e alla bellezza della verginità di Maria.
Alla fine il bacio dell’Icona esprime l’adorazione a Dio attraverso la venerazione dell’immagine che nella tradizione orientale è quasi un segno sacramentale della presenza del Cristo, della Vergine e dei Santi.
Noi, prima di concludere, faremo la preghiera di consacrazione a Gesù attraverso Maria.
Anche per me è la prima volta che celebro questa preghiera di cui ho spesso sentito parlare. Accostandola per questa occasione mi sto rendendo conto che è una preghiera molto bella e che davvero può aiutare la nostra fede a gustare e a conoscere di più il mistero di Gesù, di Maria e anche di noi che siamo pellegrini nella fede. Per questo voglio invitarvi se, appena vi è possibile, a partecipare a questo momento.

Don Luigi Pedrini

 

18 Maggio 2014

San Leonardo Confessore (Linarolo), 18 Maggio 2014

Carissimi Parrocchiani,

concludendo la vicenda di Giuseppe abbiamo visto delinearsi in lui la figura dell’uomo sapiente che sa leggere nel cuore delle persone, sa dirimere con equilibrio le questioni politiche, sa amministrare i beni secondo giustizia ed equità.

Nel congedarci definitivamente, dopo aver camminato a lungo con lui sul suo sentiero, vogliamo raccogliere un ultimo insegnamento. Giuseppe ci insegna che la vera sapienza consiste nell’arrivare a scoprire Dio in tutte le cose o, in altri termini, a scoprire che tutto possiamo vivere come un’occasione per lodare, onorare, servire Dio.

La persona che possiede la sapienza ne dà testimonianza nella vita di ogni giorno: nel suo modo di lavorare, di incontrare le persone, di perdonare, di fare politica, di usare le cose, di assolvere i propri doveri quotidiani. Questa sapienza è un puro riflesso della sapienza stessa di Dio. Dio non è onorato da noi solo quando ci raccogliamo in preghiera, che pure è necessaria e importante; Dio è onorato quando noi viviamo bene, nella fedeltà, il nostro quotidiano e secondo verità e carità le relazioni con gli altri.

La vicenda di Giuseppe è animata dalla fiducia che tutti gli avvenimenti sia quelli luminosi, sia quelli oscuri, rientrano comunque nell’orizzonte della Provvidenza di Dio. Questa è la ragione per cui in questa storia si parla pochissimo di Dio. Eppure, è tutt’altro che una storia ‘laica’: è profondamente religiosa. Giuseppe è il credente che vive tutto alla presenza di Dio. La certezza che nulla sfugge alla sue mani è la forza che gli ha permesso di non disperare mai, neanche nelle situazioni più drammatiche e, apparentemente, senza via di uscita.

In Gen 37,1 c’è un’annotazione significativa riferita a Giacobbe e che ci aiuta a capire come Giuseppe sia arrivato al dono della sapienza. Riferisce che Giacobbe, dopo aver ascoltato dal figlio il racconto dei sogni e aver manifestato anche la sua perplessità, “tenne in mente la cosa”.

Questa sottolineatura rimanda per affinità a quanto l’evangelista Luca dice in riferimento in riferimento a Maria: “Maria serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19.51).

La sapienza ha la sua scaturigine proprio in questa capacità di tenere in mente gli avvenimenti che segnano la nostra vita e di leggerli davanti a Dio alla luce della sua Parola, per cercare di comprendere giorno per giorno ciò che ci sta chiedendo e dove vuole condurci.

Per questa strada, Giuseppe è diventato sempre più un credente ricco della sapienza di Dio.

Così il sentiero che abbiamo percorso in sua compagnia ci ha fatto incontrare in lui un uomo provato dalle traversie della vita, ma anche un uomo profondamente pacificato, capace di portare riconciliazione in mezzo alla divisione e di guardare avanti sempre con speranza.

Don Luigi Pedrini

04 Maggio 2014

San Leonardo Confessore (Linarolo), 4 Maggio 2014

Carissimi Parrocchiani,

già ho ricordato che Giuseppe è l’uomo sapiente che sa interpretare i sogni e dirimere con equilibrio le questioni politiche. La Scrittura mette in luce anche un terzo aspetto: Giuseppe è il sapiente che sa amministrare i beni con giustizia mettendoli al servizio del bene comune.

Il capitolo 47 della Genesi evidenzia questo riferendo l’amministrazione accorta con cui Giuseppe ha impostato in Egitto la politica agraria. Riferisce che, aggravandosi la carestia al punto che “non c’era pane in tutto il paese” (v. 43), gli egiziani venivano da lui in gran numero ad acquistare il grano, tanto da raccogliere, in questo modo, un’ingente somma per conto del faraone.

Continuando ad imperversare la carestia e non avendo più gli egiziani la possibilità di pagare in denaro, Giuseppe offre loro la possibilità di acquistare il grano in cambio della cessione del loro bestiame. Così, gli egiziani riescono a non soccombere alla carestia per un altro anno.

Il prolungarsi ostinato della carestia con il conseguente esaurirsi delle provviste fatte costringe gli egiziani a chiedere ancora, supplichevoli, aiuto a Giuseppe. “Non nascondiamo al mio signore che si è esaurito il denaro e anche il possesso del bestiame è passato al mio signore, non rimane più a disposizione del mio signore se non il nostro corpo e il nostro terreno. Perché dovremmo perire sotto i tuoi occhi, noi e la nostra terra? Acquista noi e la nostra terra in cambio di pane e diventeremo servi del faraone noi con la nostra terra; ma dacci di che seminare, così che possiamo vivere e non morire e il suolo non diventi un deserto!”.

Giuseppe acconsente alla richiesta, acquista per il faraone tutto il terreno dell’Egitto (v. 20) e, poi, lo ridà in gestione agli stessi egiziani perché lo coltivino con questa clausola: Vedete, io ho acquistato oggi per il faraone voi e il vostro terreno. Eccovi il seme: seminate il terreno. Ma quando vi sarà il raccolto, voi ne darete un quinto al faraone e quattro parti saranno vostre, per la semina dei campi, per il nutrimento vostro e di quelli di casa vostra e per il nutrimento dei vostri bambini”. La proposta incontra l’approvazione degli egiziani: Gli risposero: “Ci hai salvato la vita! Ci sia solo concesso di trovar grazia agli occhi del mio signore e saremo servi del faraone!” (vv. 23-25).

Il testo si conclude con questa nota: Così Giuseppe fece di questo una legge che vige fino ad oggi sui terreni d’Egitto, per la quale si deve dare la quinta parte al faraone. Soltanto i terreni dei sacerdoti non divennero del faraone (v. 26).

Riguardo a quest’ultima sottolineatura si può pensare che, probabilmente, all’epoca di Salomone, quando è stato scritto il libro della Genesi, la politica fondiaria degli egiziani era vista come un esempio riuscito di gestione equa dei beni terreni e, per questo, l’autore biblico ha voluto attribuire il merito di questa scelta a Giuseppe. Ad ogni modo, quello che più sta a cuore alla Scrittura è di mostrare che Giuseppe essendo riuscito, in quella difficile situazione, a venire incontro con saggezza ai bisogni di tutti (“Ci hai salvato la vita”, v. 25), realizza la figura del saggio che sa gestire i beni, fedele a Dio, al faraone, e attento alle necessità della gente.

Don Luigi Pedrini

 

27 Aprile 2014

San Leonardo Confessore (Linarolo), 27 Aprile 2014

Carissimi Parrocchiani,

dopo la pausa dovuta sia alla Visita Pastorale del nostro Vescovo, sia agli importanti appuntamenti della Settimana Santa, riprendiamo le fila della vicenda di Giuseppe.

Dicevo l’ultima volta che il libro della Genesi, a partire dal cap. 40, presenta Giuseppe come figura esemplare dell’uomo che ha acquisito la sapienza che viene da Dio. Uno degli ambiti in cui Giuseppe rivela questo dono è il sogno: Giuseppe si dimostra capace di interpretare i sogni e di comprendere meglio, attraverso il sogno, la vita sua e degli altri.

Un secondo ambito in cui si manifesta il dono della sapienza è quello della politica. Giuseppe è l’uomo sapiente che sa prendere in mano con competenza ed equilibrio le redini della delicata situazione politica dell’Egitto. Il faraone si rende conto che Giuseppe possiede questo carisma e non ha esitazione a nominare lui, uno straniero, quale viceré. Sorprendentemente, questa nomina non suscita invidia nei dignitari di corte: la ragione è che l’avvedutezza di Giuseppe si impone per se stessa a motivo delle risposte che sa dare (si pensi ad esempio al consiglio che dà per far fronte all’imminente carestia: “Il faraone […] proceda ad istituire funzionari sul paese, per prelevare un quinto sui prodotti del paese d’Egitto durante i sette anni di abbondanza. Essi raccoglieranno tutti i viveri di queste annate buone che stanno per venire, ammasseranno il grano sotto l’autorità del faraone e lo terranno in deposito nelle città. Questi viveri serviranno al paese di riserva per i sette anni di carestia che verranno nel paese d’Egitto; così il paese non sarà distrutto dalla carestia”. La cosa piacque al faraone e a tutti i suoi ministri, cfr Gen 41,34-37) e, pertanto, si riconosce, come naturale, che Giuseppe abbia a rivestire una carica così alta.

Dunque, Giuseppe non è più semplicemente l’uomo che conosce la psicologia dei sogni e li interpreta, ma anche colui che ha acquistato una saggezza politica. Questa saggezza traspare anche in altri particolari interessanti come, ad esempio, nel rispetto che ha verso il faraone. La Scrittura riferisce che Giuseppe, uscito di prigione, prima di presentarsi dal faraone, “si rase, si cambiò gli abiti” (41,14): è un segno di rispetto. Giuseppe sa bene che il faraone è grande (teniamo presente che gli egiziani lo veneravano come un dio) e che, pertanto, è giusto avere nei suoi confronti un particolare riguardo. D’altra parte, Giuseppe sa altrettanto chiaramente che il faraone, per quanto grande, non è Dio e ci sono occasioni – come nel caso dell’interpretazione dei sogni fatti dal faraone – in cui egli esprime senza riserve questa sua convinzione: Il faraone disse a Giuseppe: “Ho fatto un sogno e nessuno lo sa interpretare; ora io ho sentito dire di te che ti basta ascoltare un sogno per interpretarlo subito”. Giuseppe rispose al faraone: “Non io, ma Dio darà la risposta per la salute del faraone!” (Gen 41,15.16).

Da questo punto di vista possiamo dire che Giuseppe è esempio di come si può entrare in campo politico senza abdicare alla proprie convinzioni di fede. Rispetto certo per le persone, ma – non di meno – rispetto anche per la verità.

Don Luigi Pedrini