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01 Marzo 2015

Carissimi Parrocchiani,

Mosè ha ormai compiuto la salita sul monte e ha davanti a sé il roveto che brucia senza consumarsi. Sta per avvicinarsi, quando Dio dal roveto lo chiama: “Mosè, Mosè!”. In quel luogo deserto Mosè si sente chiamare per nome due volte e anche se il suo “Eccomi” di risposta è pronto, deve essere stato grande lo sconcerto che ha provato: un miscuglio di paura e di meraviglia.

Il nome viene ripetuto due volte. Nella Bibbia è una cosa abbastanza rara e, in genere, avviene nel momento in cui una persona deve fare un passo in avanti nel suo cammino di fede. Pensiamo ad esempio ad Abramo chiamato due volte perché desista dal sacrificare il proprio figlio Isacco (Gen 22,1). Pensiamo a Marta che Gesù chiama ripetendo per due volte il suo nome per invitarla a distaccarsi dalle occupazioni e a dare più spazio alla sua iniziativa e all’ascolto della Parola.

Qualcosa del genere Dio sta per chiedere a Mosè: egli, chiamato per due volte da Dio, si rende conto che sta per vivere un momento importante e che la sua vita è giunta a un bivio decisivo.

Dio riprende a parlargli e gli rivolge parole inaspettate: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!” (v. 5). Dunque, Mosè non si sente dire: “Bravo, Mosè. Sei stato coraggioso e generoso. Non hai esitato a separarti dal tuo gregge per venire fin qui”, ma: “Non avvicinarti, togliti i sandali”.

Mosè era intenzionato ad avvicinarsi al roveto per contemplare quel prodigio, ma porta ancora in sé la sua visuale riguardo a Dio e al suo modo di agire nella storia. Egli ha bisogno di liberarsi dai piccoli schemi nei quali è tentato di racchiudere Dio. Questo è il significato di quel comando: “Togliti i sandali”. È come se Dio gli dicesse: “Vedi Mosè se vuoi stare alla mia presenza, se vuoi incontrarmi, devi toglierti i sandali, cioè devi mettere da parte le idee anguste che nutri a mio riguardo e aprirti alla novità del mistero. Non sei tu che devi tirare me sulla tua lunghezza d’onda, ma il contrario”.

A questo punto Dio si auto presenta: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio (v. 6).

Con questa dichiarazione Dio aiuta Mosè a scoprire il suo vero volto: Egli non è un Dio lontano e sconosciuto. È un Dio familiare, che si è legato ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe. È il Dio che è entrato personalmente nella storia di queste famiglie e si è legato al popolo nato da loro con un patto di fedeltà.

Con questa rivelazione Dio invita Mosè a ricordarsi della storia del suo popolo e a prendere le distanze dalla tentazione – che doveva essere forte in lui dopo il fallimento subito in Egitto – di rimuoverla. Dunque, Mosè è chiamato a riappropriarsi di quel passato nel quale Dio si è fatto presente testimoniando la sua cura fedele verso il popolo di Israele: la promessa che ha fatto ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe rimane valida e andrà a compimento.

Don Luigi Pedrini

22 Febbraio 2015

Carissimi Parrocchiani,

l’ultima volta abbiamo visto che Mosè, davanti al fenomeno strano di un roveto che brucia senza consumarsi, ha il cuore affastellato di tante domande a cui non sa dare una spiegazione. Potrebbe disinteressarsi e desistere dal cercare una risposta e, invece, decide di rendersi conto di persona di quello che sta accadendo.: “Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia” (v. 3).

Mosè si domanda: “perché?”, come mai? Egli è un uomo ancora capace di interrogarsi e di lasciarsi inquietare dalle domande che si porta dentro. Sono passati parecchi anni da quando coltivava i suoi sogni giovanili. Ora è un uomo di ottant’anni. Eppure, non è un uomo che ha chiuso con la partita della vita, che ritiene di aver ormai compreso tutto e che la vita non possa più riservagli sostanziali novità. Mosè è un uomo ancora disposto a imparare.

Stefano nel discorso che ha tenuto poco prima di morire e che possiamo leggere nel libro degli Atti degli Apostoli (cfr At 5-7), riferendosi proprio a questo episodio, dice che Mosè davanti allo spettacolo che stava sotto i propri occhi “si meravigliò”, cioè “rimase stupito”. Dunque, Mosè in quel frangente si è lasciato prendere dalla meraviglia che è l’atteggiamento tipico del bambino sempre capace di interessarsi per qualcosa di nuovo.

“Voglio avvicinarmi”: gli esegeti fanno notare che il verbo ebraico ‘avvicinarsi’ (sur) letteralmente significa ‘fare una diversione’, ‘fare un giro lungo’. Dunque, questo verbo esprime la volontà chiara di rendersi conto di quello che sta accadendo anche a costo di esporsi alla fatica e a qualche rischio. Concretamente, per Mosè si trattava di lasciare la pianura dove stava pascolando il gregge, salire il sentiero e attraverso lunghi giri passare dal pianoro inferiore a quello superiore.

Mosè accetta la fatica dell’ascesa e anche il rischio che comporta: infatti, fare quella diversione voleva dire lasciare incustodito il gregge, salire sotto il sole e, forse, anche esporsi a qualche pericolo.

Tutto questo è, in ogni caso, rivelativo della giovinezza interiore di Mosè. Quantunque da quarant’anni viva nel deserto dove ha ormai una famiglia consolidata, è un pastore a tutti gli effetti e può sentirsi un uomo arrivato, ha resistito alla tentazione della rassegnazione e ha custodito un atteggiamento di vigilanza e di apertura ale sorprese della vita: Mosè è davvero un uomo pronto per una nuova infanzia spirituale, maturo per ricevere la novità che Dio sta portando nella sua vita.

Don Luigi Pedrini

15 Febbraio 2015

Carissimi Parrocchiani,

seguiamo i passi di questa ‘storia nuova’ che Dio va costruendo ora con un intero popolo e la seguiamo a partire da un’angolatura particolare, quella della missione di Mosè. Iniziamo dall’avvenimento che ha segnato la svolta della sua vita: la chiamata di Dio.

Mosè, da quarant’anni ormai vive presso il suocero: lì ha imparato a pascolare un gregge non suo. Sono anni di solitudine in cui impara a guardare sempre più a distanza il suo passato e si lascia alle spalle quel progetto di liberazione del suo popolo che, a suo tempo, aveva considerato come possibile missione della sua vita. Un giorno, mentre si trova nel deserto è spettatore di un fatto inspiegabile: vede a distanza un roveto avvolto dalle fiamme e che, tuttavia, non si consuma.

Siamo di fronte a un fatto misterioso che domanda una spiegazione. Le interpretazioni esegetiche di questo testo hanno dato al riguardo una duplice risposta. Abbiamo, anzitutto, una risposta che possiamo chiamare ‘teologica’ perché vede nel roveto ardente un segno anticipatore del mistero dell’Incarnazione: il fatto che il roveto bruci senza consumarsi sta dire che l’uomo (rappresentato dal roveto) si incontrerà con Dio (rappresentato dal fuoco) e tuttavia non sarà distrutto. Ecco come un biblista dei nostri giorni esprime tutto questo:
Noi ci incontriamo continuamente con Dio, eppure facciamo la nostra vita di sempre. Rimarremo per l’eternità in Dio e non saremo consumati da questo fuoco. Permanenza della natura umana in Cristo. Mistero grandissimo: Dio è uscito da sé; tu sei consumato eppure non consumato; muori e rinasci continuamente. Dalle ceneri della tua morte nasce una vita più alta: tu possiedi la vita stessa di Dio. Il roveto arde, ma non consuma. Mistero di Cristo e di tutti i cristiani. Si vive la nostra povera vita, eppure tutto è pieno di Dio. Noi viviamo con lui in semplicità, restiamo semplici uomini, ma possediamo l’immensità del suo dono (D. Barsotti)
La seconda risposta, invece, vi legge un rimando a ciò che Mosè deve scoprire in se stesso: egli pensa che il progetto di liberazione coltivato in gioventù appartenga al passato e non si rende conto che in realtà continua a vivere dentro di lui, nascostamente, ma è come una brace sepolta sotto la cenere che improvvisamente può tornare a divampare. Secondo questa interpretazione il roveto ardente è uno specchio di quello che Dio sta per operare in Mosè: Dio è venuto per rianimare in lui un fuoco che egli credeva consumato per sempre. Così, commenta P. Stancari:
Mosè scopre improvvisamente qualcosa che lo butta in faccia ad un mistero non ancora sondato. C’è qualcosa dentro di lui che – malgrado tutto – non viene meno: al fondo della sua intera esperienza di uomo ormai finito e di condottiero mancato, Mosè avverte una presenza che non si consuma. Egli scopre dentro di sé l’ardore di una fiamma che brucia senza consumarsi, come una passione, quieta e profondissima, che sia in grado di trarre nuova forza dal suo stesso bruciare. […] Mosè non capisce: è come se la passione che lo divora brillasse di nuovo vigore, man mano che egli si sente sprofondare nel buio della delusione… è come se il suo amore per la giustizia e per il suo popolo si ravvivasse, man mano che egli si sente invecchiare e morire. Mosè non capisce ancora…

Don Luigi Pedrini

01 Febbraio 2015

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Mosè che trova rifugio nella terra di Madian, viene accolto in casa dal pastore Ietro, sposa la figlia Sipporà dalla quale ha un figlio, Ghersom. Il futuro della sua vita sembra ormai deciso. Ma proprio in questa situazione, viene a collocarsi la chiamata di Dio, la sua ‘vocazione’. Tutto avviene sul “monte di Dio” che noi conosciamo come Sinai o anche Oreb. Questo monte si trova nella zona meridionale della penisola del Sinai, una zona montuosa che, probabilmente, aveva un valore di sacralità presso le popolazioni madianite che la abitavano.

Gli esegeti fanno notare che questo testo è nato dall’intreccio di diverse tradizioni bibliche: se da una parte, stenta a raggiungere una piena unificazione; dall’altra, rivela la preoccupazione di non voler perdere nulla del patrimonio tradizionale. In ogni caso risulta chiaro qual è il cuore del racconto che vuole trasmettere: nella vita di Mosè, un giorno, è accaduto qualcosa di importante che ha segnato uno stacco tra il prima e il dopo. Questo qualcosa ha orientato nuovamente Mosè verso il servizio al suo popolo e alla missione. Seguiamo, allora, i passi progressivi del racconto.

Dopo molto tempo il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio (Es 2,23). La sorte degli ebrei in Egitto rimane alquanto drammatica e neanche la morte del faraone che li ha duramente sottoposti ai lavori forzati non apporta alcun sollievo. In questa situazione innalzano il loro grido a Dio. Gemettero, dice il testo. Il gemito è l’espressione di una sofferenza indicibile, resa insopportabile dal fatto di non lasciar vedere alcuna via d’uscita.

Il lamento che innalzano non si accompagna ad una richiesta esplicita di liberazione. Sembra di capire che gli israeliti non sono ancora pronti per un passo del genere. Forse appare loro un traguardo troppo alto: abituati come sono a vivere in schiavitù non sono più capaci di pensare ad una vita diversa. La loro speranza è timida e incerta, forse anche per una certa paura che incute la libertà. L’Egitto per loro significa servitù, ma anche sopravvivenza assicurata. Basterebbe un servizio più leggero per rendere la loro permanenza accettabile; l’uscita dall’Egitto significa invece intraprendere il cammino verso la libertà che, se è affascinante, è anche pericoloso. C’è il deserto da attraversare e non è scontato l’avere sempre il necessario per sopravvivere. Dunque, il cammino della libertà costa e fa paura.

C’è da notare che il testo non dice che gli israeliti innalzarono a Dio grida di preghiera, ma grida di lamento che tuttavia raggiungono il cuore di Dio: Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero (Es 2,24-25). Questo “se ne prese pensiero” rivela il movente di tutta la vicenda dell’Esodo. All’inizio c’è questo darsi pensiero da parte di Dio.

Così, prende avvio una nuova storia: non più la storia di uomini singoli, come Abramo, Isacco, Giacobbe, ma la storia di un popolo, di una umanità redenta.

Ci prepariamo, in compagnia di Mosè, a seguire i primi passi di questa nuova storia.

Don Luigi Pedrini

25 Gennaio 2015

Carissimi Parrocchiani,

a conclusione del commento di questo primo tratto della vita di Mosè che va dalla sua nascita all’incontro con Dio sul monte Sinai, ci lasciamo illuminare da una considerazione originale che traggo dalla Vita di Mosè di san Gregorio di Nissa, un padre della Chiesa vissuto nel secolo IV.

La sua riflessione ha una finalità eminentemente spirituale: vuole nutrire la nostra fede e stimolarci a rivivere in prima persona l’esperienza di Mosè. Infatti, dopo il racconto della nascita scrive: “La nascita di Mosè coincide con il decreto del faraone che ordinava l’eliminazione di tutti i bambini maschi. In che modo la nostra libertà imiterà questa circostanza fortuita?”

Dunque, si tratta per noi di imitare in certa misura la nascita ‘singolare’ di Mosè. Ma è possibile? Risponde in proposito san Gregorio: “Non dipende da noi, si dirà giustamente, imitare con la nostra nascita questa nascita così singolare”. E, tuttavia, aggiunge: “Ma questa difficoltà apparente, che sorge dall’inizio, non deve farci fermare”.

Ed ecco la sua originaria considerazione: egli distingue un ‘nascere’ che non dipende da noi (nessuno di noi ha deciso in prima persona di venire al mondo), da un ‘nascere’ che, invece, è opera nostra al punto che noi siamo – afferma san Gregorio di Nissa – “genitori di noi stessi”. Scrive: “Chi non sa che tutti gli esseri sottomessi al divenire non restano mai identici a se stessi, ma passano continuamente da una forma all’altra, a causa di un cambiamento continuo, che è sempre verso il bene o verso il male? Pertanto, essere soggetti al cambiamento significa nascere continuamente. […] Ma qui la nascita non è causata da un intervento esterno, come avviene per gli esseri corporali… Essa invece è il risultato di una scelta libera; e noi siamo, in un certo senso, i genitori di noi stessi, generando noi stessi nel modo in cui vogliamo essere e formandoci con la nostra volontà secondo il modello che scegliamo per il bene o per il male”.

Dunque, dipende da noi dopo essere nati che la nostra vita si orienti verso il bene che ci fa vivere oppure verso il male che ci porta alla rovina. È quello che già ricordava nell’Antico Testamento il libro del Deuteronomio: “Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore, tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità” (Dt 30,19-20). Nella stessa linea Gesù afferma che chi segue Lui che è la porta della vita “sarà salvo: entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9).

Si comprendono, allora le affermazioni conclusive di san Gregorio di Nissa: “Così noi abbiamo la possibilità, nonostante l’opposizione del tiranno (al tempo di Mosè era il faraone; per noi è il mondo che vuole imporre la sua logica fuorviante), di nascere ad una vita superiore”.

Questa nascita se da una parte è dono di Dio (è Lui che apre davanti a noi la strada della vita), dall’altra è opera nostra: dipende dalla nostra libera scelta orientare i passi sulla via che conduce alla vita. Davvero – conclude san Gregorio di Nissa – siamo di fronte a “una nascita spirituale in cui la libertà opera come nutrice” (da: La vita di Mosé, di Gregorio di Nissa, II,1-4)

Don Luigi Pedrini

18 Gennaio 2015

Carissimi Parrocchiani,

nel foglio della scorsa settimana ho richiamato l’attenzione su due singolari somiglianze tra la vita di Mosè e quella di Gesù. Continuo in questo solco ricordando altri due tratti che essi hanno in comune.

In primo luogo, il fatto che la missione di Mosè è preceduta da un lungo periodo di silenzio e di nascondimento. Riguardo agli anni che la precedono sappiamo pochissimo: siamo informati soltanto della sua iniziativa di presentarsi, a un certo punto, sulla scena pubblica nella veste di difensore del suo popolo. C’è, dunque, questa uscita ‘ufficiale’ che, quantunque fallimentare, è rivelativa dell’orientamento di vita che Mosè coltivava nel suo cuore. È, però, solo una breve parentesi, perché subito dopo Mosè ritorna nell’ombra: quando la chiamata di Dio lo raggiunge sul monte Sinai sono trascorsi ben quarant’anni dalla sua fuga dall’Egitto.

Anche in Gesù troviamo qualcosa di simile. La sua missione comincia all’età di trent’anni: prima c’è il lungo silenzio degli anni trascorsi a Nazaret. Anche nella sua vita, come in quella di Mosè, c’è stata una breve interruzione, un momento in cui è uscita dall’ombra: si tratta dell’episodio accaduto all’età di dodici anni, quando, durante il pellegrinaggio a Gerusalemme, si intrattiene all’insaputa di tutti. I suoi genitori credendolo smarrito, si mettono in affannosa ricerca e lo ritrovano dopo tre giorni seduto nel tempio mentre ascolta e interroga i dottori della legge. Alla loro richiesta di spiegazione di quel comportamento, Gesù dà una risposta inequivocabile riguardo a quello che sarà il suo orientamento di vita: egli dovrà “essere nella casa del Padre suo” (Lc ), cioè vivere interamente la sua vita in obbedienza alla volontà del Padre.

Ecco, allora un terzo parallelismo: sia la missione di Mosè, sia la missione di Gesù nascono dal silenzio, come a dire che Dio non ha bisogno anzitutto delle nostre doti, della nostra buona volontà, di ciò che umanamente fa notizia per realizzare i suoi disegni: Egli ama servirsi della nostra povertà e umiltà.

Infine, possiamo ricordare un quarto parallelismo che mette in luce la somiglianza, ma anche la diversità e l’eccellenza di Gesù rispetto a Mosè. Il tratto in comune è costituito dal rifiuto che, in certa misura, entrambi hanno incontrato da parte del loro popolo. Mosè viene rifiutato dai suoi e intraprende la via del deserto; Gesù viene pure rifiutato dai suoi e intraprende la via della croce. La differenza, invece, sta nella motivazione che ha determinato il rifiuto. Mosè è rifiutato per il ricorso alla violenza che lo fa percepire come uno che vuole imporre la sua autorità; Gesù, all’opposto è rifiutato perché non ricorre alla violenza, è troppo debole: il popolo di Israele non ha riconosciuto in lui il ‘nuovo Mosè’ che, secondo le aspettative, doveva essere un liberatore politico.

In realtà, Gesù sarà davvero il ‘condottiero’ e il ‘liberatore’, ma non salverà il suo popolo dall’oppressione politica del potente di turno servendosi della forza, ma dalla schiavitù interiore del peccato mediante il dono della propria vita. Come a dirci che Dio lavora ad un altro livello, più profondo e radicale, diverso dalle nostre aspettative. E qui sta l’eccellenza di Gesù rispetto a Mosè.

Don Luigi Pedrini

11 Gennaio 2015

Carissimi Parrocchiani,

riprendendo le fila della vicenda di Mosè dopo le feste natalizie, vi invito a tornare sui fatti commentati fino ad ora per cogliervi alcune prefigurazioni della vita stessa di Gesù. Si tratta di parallelismi singolari che contribuiscono ad illuminare sia la vita di Mosè sia la vita di Gesù.

Un primo parallelismo è costituito dalla strage dei bambini che fa da cornice drammatica a entrambe le nascite: nel caso di Mosè è decretata dal faraone; nel caso di Gesù dal re Erode. All’origine di tutto il timore dei due regnanti di perdere il potere. A questo riguardo, la letteratura aggadica (si tratta di commenti al Pentateuco ad opera dei rabbini: risalgono a pochi decenni prima della nascita di Gesù e tendono ad amplificare gli avvenimenti dell’Esodo) nel suo commento alla figura di Mosè, offre una spiegazione singolare della decisione del faraone di far morire tutti i bambini di Israele nel Nilo. Spiega che all’origine ci sarebbe stato un sogno fatto dal faraone.
Il Faraone vide una bilancia e, sui piatti della bilancia, da una parte tutto il paese d’Egitto e dall’altra – meravigliosa cosa – un agnello. […] Il piatto dove era posto l’agnello andava giù, mentre il piatto dove posava tutto il paese d’Egitto saliva. Questo sogno misterioso impaurì e sgomentò il faraone. Appena sveglio egli chiamò i magi di tutto l’Egitto perché volessero spiegargli il sogno. E i magi dissero al faraone: “Tempo verrà che un figlio di Israele distruggerà tutto l’Egitto: tutto l’Egitto insieme non avrà potere su di lui; egli sarà il vero re”. Il faraone geloso del proprio potere che vedeva minacciato dal re dei Giudei annunciato da magi, volle salvare questo potere cercando di trucidare l’agnello che avrebbe dovuto sgominare la potenza dell’Egitto.
Questi stessi testi, commentando la promessa che si trova nel Deuteronomio secondo la quale Dio avrebbe mandato un profeta simile a Mosè, spiegano che si riferisce alla venuta del Messia: sarebbe stato un Mosè redivivo. È molto probabile che Matteo quando narrava la strage degli innocenti presentando Gesù come Salvatore avesse presente tutto questo.

Una seconda prefigurazione di Gesù la cogliamo nella scelta generosa di Mosè a favore del suo popolo. Si coinvolge e si espone fino a rinunciare ai privilegi di cui godeva nella casa del faraone pur di farsi solidale con i suoi fratelli schiavi e perseguitati. Sta di fatto che questa presa di posizione si esprimerà nella decisione di uscire per sempre dalla casa del Faraone e diventare egli stesso esule in terra straniera come i suoi fratelli.

Anche in Gesù troviamo questo dinamismo di auto-spoliazione di ogni privilegio e di solidarietà verso di noi. Lo dichiara in modo perentorio san Paolo nella lettera ai Filippesi quando scrive che Gesù “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso per apparire uomo come noi” (Fil 2,6ss). Dunque Gesù, nonostante potesse venire in mezzo a noi forte delle sue prerogative divine, ha preferito rinunciarvi e presentarsi uomo del tutto simile a noi. Davvero – come ci hanno ricordato le feste del Natale – si è incarnato, cioè ha assunto veramente la debolezza della nostra carne, realizzando così un mistero che non finirà mai di stupirci.

Don Luigi Pedrini

14 Dicembre 2014

Carissimi Parrocchiani,

prima di metterci in ascolto degli avvenimenti successivi e, in particolare, della ‘teofania’ del Sinai, che vedrà Mosè protagonista di un singolare incontro con Dio che segnerà una svolta decisiva nella sua vita, sostiamo sugli avvenimenti finora narrati per qualche considerazione che sia illuminante anche per il nostro cammino di fede.

La prima cosa che sorprende è che la salvezza dell’infante Mosè, per sé destinato come tutti i bambini maschi degli ebrei a morire annegato nel Nilo, è giunta per la strada più impensata: Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Ella vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco, il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione…(Es 2,5-6).

Davvero Dio è capace di servirsi di tutto e di tutti per realizzare la sua opera: in questo caso si è servito niente meno che della figlia del faraone, così che – cosa paradossale – proprio il faraone, che aveva decretato l’uccisione di tutti i figli maschi degli ebrei, va preparando l’uomo che determinerà la salvezza di Israele.

Questo particolare invita noi ad affrontare le vicissitudini avendo fiducia nello Spirito di Dio che continua ad operare nella storia, senza cedere alla tentazione di quel “pessimismo sterile” da cui mette in guardia papa Francesco nell’Evangelii gaudium. Egli scrive:

I mali del nostro mondo – e quelli della Chiesa – non dovrebbero essere scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro fervore. Consideriamoli come sfide per crescere. Inoltre, lo sguardo di fede è capace di riconoscere la luce che sempre lo Spirito Santo diffonde in mezzo all’oscurità, senza dimenticare che «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20). La nostra fede è sfidata a intravedere il vino in cui l’acqua può essere trasformata, e a scoprire il grano che cresce in mezzo della zizzania. A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, anche se proviamo dolore per le miserie della nostra epoca e siamo lontani da ingenui ottimismi, il maggiore realismo non deve significare minore fiducia nello Spirito né minore generosità (n. 84)

C’è ancora un particolare che vale la pena richiamare. I versetti 5-6 riferendo per la prima di Mosè, che poi sarà il protagonista assoluto degli avvenimenti successivi, lo presentano semplicemente come un bambino che piange. In questo modo, la Parola di Dio vuole ricordare l’umiltà dello stile di Dio: egli ama realizzare imprese grandiose servendosi di avvenimenti all’inizio molto umili. Queste era e rimane tutt’oggi lo stile con cui Dio porta avanti la storia.

E anche qui c’è di che riflettere: solo rimanendo nell’umiltà, nella povertà, nell’impotenza serviremo il Signore. Se vorremo ricorrere alla potenza, alla ricchezza, alla forza, saremo strumenti inadatti e il Signore ci dirà che non ha bisogno di noi. Tra l’altro, l’impotenza ha il vantaggio – come è accaduto con Mosè – di essere difesa e salvata proprio dagli stessi potenti: non sanno che proprio l’impotenza è il loro vero pericolo.

Don Luigi Pedrini

07 Dicembre 2014

Carissimi Parrocchiani,

la scorsa settimana abbiamo lasciato Mosè in fuga dell’Egitto per il fatto che il faraone vuole punirlo con la morte. Giunge nella terra di Madian, nel deserto, presso il monte Sinai e trovato un pozzo si disseta e, poi, siede per riposarsi. Ed, ecco, che cosa accade:

16Il sacerdote di Madian aveva sette figlie. Esse vennero ad attingere acqua e riempirono gli abbeveratoi per far bere il gregge del padre. 17Ma arrivarono alcuni pastori e le scacciarono. Allora Mosè si levò a difendere le ragazze e fece bere il loro bestiame. 18Tornarono dal loro padre Reuèl e questi disse loro: “Come mai oggi avete fatto ritorno così in fretta?”. 19Risposero: “Un uomo, un Egiziano, ci ha liberato dalle mani dei pastori; lui stesso ha attinto per noi e ha fatto bere il gregge”. 20Quegli disse alle figlie: “Dov’è? Perché avete lasciato là quell’uomo? Chiamatelo a mangiare il nostro cibo!”. 21Così Mosè accettò di abitare con quell’uomo, che gli diede in moglie la propria figlia Sipporà. 22Ella gli partorì un figlio ed egli lo chiamò Ghersom, perché diceva: “Vivo come forestiero in terra straniera!”.

23Dopo molto tempo il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. 24Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. 25Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero.

Anche in questo episodio ritroviamo sia la generosità sia il senso di giustizia che animano il cuore di Mosè. Ancora una volta interviene in favore del più debole, dell’oppresso. Il suo gesto gli procura la stima e la fiducia di Reuel (Raguele, poi Ietro) che lo accoglie in casa sua e gli dà in moglie una sua figlia, Sipporà. Mosè – dice il testo – accettò di abitare con quell’uomo (v. 21). Questa disponibilità segna una svolta nella sua vita: è l’inizio di un nuovo cammino che, passo dopo passo, lo aiuterà a riprendersi dallo scacco subito e a ricostruirsi interiormente.

Un Egiziano ci ha liberato dalle mani dei pastori (v. 19): Mosè viene identificato erroneamente come un egiziano. È un errore di valutazione che, però, acquista per lui, valore di rivelazione. Mosè si rende conto di avere alle spalle un passato che gli ha dato i sembianti di un egiziano. Tra lui e il suo popolo si è creata una distanza, così che è del tutto comprensibile la diffidenza che ha manifestato nei confronti della sua iniziativa di liberazione e di riscatto. Il superamento di questa diffidenza richiede che egli svesta i panni egiziani e torni a indossare quelli del suo popolo. Così, il tempo di Madian, diventa per Mosè un prezioso tempo di purificazione. Il ritrovarsi emigrato in terra straniera lo allinea perfettamente con la condizione dei suoi fratelli in Egitto e lo assimila del tutto a loro. Ora sul terreno del suo cuore va iniziando il delicato lavoro dell’aratura e la semente della vocazione e della missione che Dio sta per offrirgli è pronta per affondare le sue radici e attecchire.

Don Luigi Pedrini