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17 Maggio 2015

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo visto le difficoltà di Mosè di fronte alla chiamata di Dio. Alla fine, però, accetta, si affida e decide di ritornare in Egitto. Va dal suocero e lo informa: “Lascia che io parta e torni dai miei fratelli che sono in Egitto, per vedere se sono ancora vivi!” (4,18).

Così, a distanza di quarant’anni, dopo un tentativo andato a vuoto, riprende la ricerca dei suoi fratelli. Eppure, quale differenza tra questa ricerca e la prima. Allora si trattava di un intervento generoso frutto della sua iniziativa, un po’ ingenuo, forse anche un po’ presuntuoso, fatto da un giovane, pieno di energie. Adesso, invece, è la missione che egli, uomo maturo e anziano, affronta solo perché Dio gliela affida.

Ed ecco le sorprese che Dio gli riserva. Anzitutto, l’incontro con il fratello di sangue, Aronne. Tutto si svolge secondo quanto Dio aveva preannunciato: egli sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo. Tu gli parlerai e metterai sulla sua bocca le parole da dire e io sarò con te e con lui mentre parlate e vi suggerirò quello che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te” (Es. 4,14-16). E così avviene: (Aronne) andò e incontrò (Mosè) al monte di Dio e lo baciò. 28Mosè riferì ad Aronne tutte le parole con le quali il Signore lo aveva inviato e tutti i segni con i quali l’aveva accreditato. 29Mosè e Aronne andarono e radunarono tutti gli anziani degli Israeliti. 30Aronne parlò al popolo, riferendo tutte le parole che il Signore aveva detto a Mosè (Es. 4,27-30) Dunque, Dio improvvisamente, in modo inaspettato, mette al fianco di Mosè un ‘fratello’: sarà il suo sostegno e gli permetterà di superare qualunque imbarazzo.

Una seconda sorpresa Dio riserva a Mosè ed è l’incontro con i fratelli. Il testo riferisce che la reazione del popolo di Israele alle parole che Aronne pronuncia in nome di Mosè è stata del tutto positiva: Il popolo credette (Es 4,31). Anzi, si precisa che gli israeliti, quando udirono che il Signore aveva visitato gli Israeliti e che aveva visto la loro afflizione, essi si inginocchiarono e si prostrarono (Es 4,31). Contrariamente a quello che Mosè aveva temuto (“non mi crederanno”, Es 4,1)) il popolo credette. Dunque, Mosè deve ricredersi e riconoscere che Dio lo ha preceduto e ha già arato il terreno ancora prima che abbia ad iniziare la sua missione. Questo precedere è una caratteristica tipica dell’agire di Dio: la sua iniziativa viene prima della nostra opera, come rimarca bene P. Stancari nel suo commento:

 (Mosè) non ha ancora cominciato il suo viaggio verso i suoi fratelli, che già questi – nella persona di Aronne – gli muovono incontro. Mosè si trova ancora presso il “monte di Dio”; ed in quello stesso luogo lo raggiungono i suoi fratelli, che scambiano con lui il “bacio” dell’amicizia e della pace. Man mano che l’impegno missionario di Mosè andrà prendendo corpo nei fatti, in riferimento alle situazioni concrete, egli sarà costretto a constatare di essere ogni giorno scavalcato dall’iniziativa di Dio che lo previene. Per chi è veramente chiamato al servizio dei propri fratelli, tutto accade come a gente sorpresa da un dono: quando forse ci sta predisponendo a qualche grande impresa apostolica ecco che ci accorgiamo, pieni di meraviglia, che i nostri fratelli sono già accanto a noi, […] uniti a noi dalla comunione che il Signore dona agli uomini, chiamati ad un’unica salvezza (P. Stancari, Lettura spirituale dell’Esodo, p. 49).

Don Luigi Pedrini

03 Maggio 2015

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo visto la scorsa settimana le obiezioni che Mosè solleva riguardo alla missione alla quale Dio lo chiama e anche i segni con cui lo invita a non temere e ad affidarsi.

Le obiezioni di Mosè – il rischio di non essere ascoltato dagli israeliti o dal faraone, come pure la difficoltà dovuta alla sua scarsa capacità comunicativa (la tradizione rabbinica sostiene che Mosè difettasse di balbuzie) – se da una parte hanno indubbiamente una loro pertinenza, dall’altra lasciano intravedere sullo sfondo la difficoltà fondamentale insita in ogni vocazione. Si tratta della sproporzione tra la propria persona e la missione a cui si è chiamati, percepita questa come qualcosa di troppo gravoso, superiore alle proprie forze.

È una costante che si ritrova in tutti i racconti di vocazione. La ragione di tale sproporzione è semplice: Dio rivolge la sua chiamata, ma questa non cambia l’umanità della persona chiamata, non le dà un’attrezzatura straordinaria che la equipaggia di una forza sovrumana di resistenza;s l’uomo, davanti alla chiamata del Signore, rimane sempre con la sua povertà di parola, di pensieri, di forze.

La vocazione richiede, dunque, l’andare oltre se stessi per riporre interamente in Dio la propria fiducia.

Pensiamo ad Abramo, la cui speranza riposava interamente sulla promessa di Dio. Proprio questa speranza gli ha permesso di perseverare lottando contro un presente che sembrava smentire in modo palese le sue aspettative.

Pensiamo a Maria: la maternità con la quale è diventata la madre del Messia è stata il frutto della fede, cioè di quell’andare oltre se stessa per riporre interamente la sua speranza e fiducia nella parola di Colui al quale “nulla è impossibile” (Lc 1,37).

Ritornando a Mosè, l’unica risorsa sulla quale egli può contare – e Dio continuamente glielo ricorda come garanzia – è la parola di Dio: Non sono forse io, il Signore? Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire (Es 3,12).

Grazie a questa parola Mosè potrà riportare vittoria sul senso di inadeguatezza che lo opprime e che vorrebbe metterlo in fuga, come pure sulle resistenze che incontrerà sia da parte del faraone, sia da parte dagli israeliti.

Don Luigi Pedrini

26 Aprile 2015

Carissimi Parrocchiani,

lasciamo il capitolo 3 ci mettiamo in ascolto del capitolo 4 dell’Esodo. È un testo che possiamo definire di ‘transizione’: svolge cioè la funzione di collegamento tra il racconto della vocazione di Mosè (cap. 3) e quello del suo primo incontro con il faraone (cap. 5). Apparentemente sembra una pagina di secondaria importanza sulla quale si potrebbe sorvolare e passare oltre; in realtà non è così. Come insegnano bene i Vangeli, i testi di questo genere (si pensi ad esempio ai cosiddetti ‘sommari’) sono molto importanti perché focalizzano alcune idee di fondo, riassumono quello che è stato detto prima e preparano i successivi sviluppi narrativi. Così anche in questo capitolo: ricompaiono i temi già accennati precedentemente (gli ebrei schiavi in Egitto, Mosè nella situazione di profugo, la sua vocazione e missione) e sono anticipati gli avvenimenti successivi (le piaghe, l’emergere della figura di Aronne, il profilarsi dello scontro con il faraone).

Da parte nostra ci mettiamo in ascolto di questo testo sempre secondo l’angolatura che abbiamo scelto: quella del cammino di fede di Mosè.

Il capitolo si apre con le obiezioni che Mosè solleva nei confronti della missione che Dio vuole affidargli. La prima obiezione riguarda l’indifferenza e l’incredulità che potrebbe incontrare nei suoi fratelli, gli israeliti: “Ecco, non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce, ma diranno: “Non ti è apparso il Signore!””. La risposta di Dio è molto puntuale: Il Signore gli disse: “Che cosa hai in mano?”. Rispose: “Un bastone”. Riprese: “Gettalo a terra!”. Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente, davanti al quale Mosè si mise a fuggire. Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano e prendilo per la coda!”. Stese la mano, lo prese e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. “Questo perché credano che ti è apparso il Signore, Dio dei loro padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”. Il Signore gli disse ancora: “Introduci la mano nel seno!”. Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. Egli disse: “Rimetti la mano nel seno!”. Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne. “Dunque se non ti credono e non danno retta alla voce del primo segno, crederanno alla voce del secondo! Se non crederanno neppure a questi due segni e non daranno ascolto alla tua voce, prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta”. Come si vede, Dio ha già predisposto tutto, ha pure previsto come Mosé dovrà far fronte alle resistenze da parte del faraone e degli egiziani.

La seconda obiezione fa leva, invece, sulla sua modesta capacità comunicativa:. Disse al Signore: “Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono stato né ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua”. Anche qui la risposta del Signore è precisa: Il Signore replicò: “Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? 12Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire”. Dunque, Dio provvederà anche a questo: sarà lui a mettere sulla sua bocca le parole appropriate e a dargli la forza necessaria. Mosè, però, non è ancora del tutto convinto e la tentazione di tirarsi indietro è forte, al punto che arriva a dire: “Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!.  Dio, però, non si lascia scoraggiare e insiste…

Don Luigi Pedrini

19 Aprile 2015

Carissimi Parrocchiani,

concludo il commento a questa seconda fase della vita di Mosè con una citazione che traggo da La vita di Mosè di san Gregorio di Nissa.

La sua riflessione di carattere spirituale vuole offrire qualche luce anche per il nostro cammino di fede. Ed ecco la sua prima considerazione. Riferendosi alla vita appartata di Mosè nel deserto, scrive: Allorché vivremo solitari, senza dover venire alle mani con gli avversari, senza dover essere arbitri di litigi, ma in unione di pensiero e di sentimenti con i pastori che condividono la nostra vita; quando tutti i moti del nostro spirito saranno unificati sotto la guida della ragione, come un gregge condotto dal suo pastore; quando potremo godere di questa vita tranquilla e senza lotte, la verità risplenderà su di noi e illuminerà con i suoi raggi gli occhi del nostro spirito.

San Gregorio afferma che quando troviamo, dopo un periodo intenso di attività, un tempo per fermarci, vissuto in pace con gli altri (in unione di pensiero e di sentimenti) e con noi stessi (unificati tutti i moti interiori) allora la verità trova spazio in noi e illumina interamente la nostra esistenza: anche noi come Mosè diventiamo spettatori di un roveto che brucia senza consumarsi.

La seconda considerazione riguarda proprio il fatto del roveto ardente che san Gregorio legge come un segno anticipatore del mistero dell’Incarnazione. Il segno umile del roveto è attraversato da un fuoco che arde e non consuma. Ugualmente nel mistero dell’incarnazione: Dio che è luce si è abbassato fino ad assumere la nostra natura umana; nel grembo di Maria si è manifestato nella carne.

Il roveto richiama anche l’umile condizione della natura umana che Dio ha voluto assumere. Non ha voluto venire in mezzo a noi con lo splendore della sua gloria, ma rivestendosi della nostra carne mortale. La luce di Dio – scrive san Gregorio – non risplende di qualche luce stellare – il suo splendore rischierebbe allora di essere confuso con quello di una materia celeste – e tuttavia, pur provenendo da un semplice roveto terreno, supera con i suoi raggi gli astri del cielo. Dunque, questa luce promana da una umanità che è in tutto come la nostra: veramente Dio si è fatto uomo; eppure, questa luce che risplende in un uomo come noi è ben superiore a ogni essere celeste, perché è la luce del Figlio di Dio fatto uomo. Anche il fatto del fuoco che arde senza consumare il roveto rimanda al mistero dell’Incarnazione. È quanto è accaduto nel mistero del parto verginale: il fuoco della divinità, che nascendo ha illuminato il mondo, ha lasciato intatto il roveto che lo ha accolto, e il parto non ha fatto sfiorire la verginità di Maria.

Ed ecco gli insegnamenti che ricava per il nostro cammino spirituale. Anzitutto, questo episodio insegna ciò che dobbiamo fare per rimanere sotto i suoi raggi. Perché la luce del roveto possa illuminare sempre la nostra vita dobbiamo custodire la pace con gli altri e con noi stessi, coltivando una vita virtuosa; in secondo luogo, ci esorta ad accostarci al mistero di Dio in atteggiamento di umiltà: infatti, non possiamo correre con i calzari ai piedi verso il luogo elevato dove si manifesta la luce della verità; … prima dobbiamo spogliare i piedi dell’anima del rivestimento di pelli morte e terrene di cui la nostra natura è stata rivestita, all’inizio, quando per avere disobbedito al comando divino, siano rimasti nudi (da: La vita di Mosé, di Gregorio di Nissa, II,19-22)

Don Luigi Pedrini

12 Aprile 2015

Carissimi Parrocchiani,

riprendendo le fila della vicenda di Mosè dopo le feste pasquali, mi trattengo ancora sulla seconda fase della vita di Mosè – la sua permanenza nel deserto che va dalla fuga dall’Egitto fino all’episodio misterioso del roveto che brucia senza consumarsi – per mettere in luce anche in questo caso alcune prefigurazioni della vita di Gesù. In particolare, possiamo ricordare due parallelismi illuminanti sia la vita di Mosè, sia la vita di Gesù.

Il primo lo cogliamo tra la vita che Mosè trascorre a Madian (quarant’anni) dopo la ‘fiammata rivoluzionaria’ con cui pensava di cambiare la sorte del suo popolo e la vita ordinaria che Gesù trascorre a Nazaret dopo l’episodio folgorante del pellegrinaggio a Gerusalemme nel quale ha aperto uno squarcio sulla sua identità di Figlio di Dio: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio’” (Lc 2,49).

Mosé, dopo quella fiammata, si immerge nella vita ordinaria: si sposa, ha dei figli, si dedica al suo lavoro di pastore. In una parola, entra nella normalità della vita comune a tutti noi. Ugualmente Gesù, dopo l’episodio del pellegrinaggio a Gerusalemme conosce una vita di nascondimento, ritorna a Nazaret dove, sottomesso a Maria e a Giuseppe, vive in famiglia la sua vita come qualunque altro figlio.

Mosè esce dal nascondimento nel deserto nel momento in cui Dio gli si rivela sul monte Sinai e gli affida la missione di salvezza per il suo popolo; Gesù lascia il nascondimento di Nazaret nel momento in cui il Padre in occasione del Battesimo lo proclama pubblicamente come il Figlio amato: da quel momento intraprende la sua missione pubblica.

Così accade anche a noi. Se la nostra vita è stata riscattata dal grigiore di un cammino che procede a vuoto, senza meta, lo dobbiamo all’iniziativa di Dio che è venuto in cerca di noi e nel Battesimo, il nostro ‘Sinai’, ci ha coinvolto nel suo disegno di grazia. Da allora siamo entrati in una vita nuova, avvincente, sulle orme di Mosè, di Gesù…

Il secondo parallelismo lo cogliamo nel silenzio che caratterizza sia la seconda fase della vita di Mosè, sia gli anni che Gesù trascorre a Nazaret. Quale mistero! Nella vita di Mosè quarant’anni di deserto, di lontananza e di distacco dal popolo oppresso in Egitto, prima di iniziare la sua missione; nella vita di Gesù trent’anni di silenzio prima di quei tre anni di ministero che hanno cambiato per sempre la storia umana.

Tutto questo rivela il modo di agire proprio di Dio: nel suo disegno di grazia le cose maturano nel silenzio, nell’ombra. A un certo momento, però, la sua iniziativa si fa manifesta e, allora, tutto incomincia come nuovo, tutto sembra erompere improvviso. E in realtà, nulla è improvvisato. Accade come per il seme di frumento che matura in estate e, tuttavia, ha attraversato tutte le stagioni traendo beneficio dal vento, dalla pioggia, dal freddo, dal sole, dall’opera umana che ha lavorato per lui.

E così Dio fa con noi: davvero la sua opera nei nostri confronti – come è stata per Mosè e per Gesù – è partita da molto lontano…

Don Luigi Pedrini

29 Marzo 2015

Carissimi Parrocchiani,

con la celebrazione della Domenica delle Palme entriamo nella Settimana Santa che ha il suo vertice nella celebrazione del Triduo pasquale in cui rivivremo il mistero della passione e risurrezione del Signore Gesù. In questa Domenica contempliamo Gesù che entra deliberatamente nella città che sta tramando contro di Lui per farlo morire.

Nel Giovedì santo contempleremo Gesù che ci dona durante l’ultima cena l’Eucaristia il sacramento con il quale Egli ha scelto di rimanere per sempre con noi e si lascia incontrare come Colui che dona la sua vita per noi. Nel Venerdì santo insieme a Maria e all’apostolo Giovanni contempleremo e adoreremo la croce manifestazione suprema del suo amore per noi. Nel Sabato santo sosteremo in preghiera accanto al sepolcro per pregustare nel grande silenzio che caratterizza quella giornata la vita nuova del risorto che sta germogliando. Nella notte di Pasqua proclameremo con l’alleluia la risurrezione di Gesù, vittoria sulla morte e fondamento della nostra speranza.

La confessione alla quale siamo invitati ad accostarci in questi giorni in preparazione alla Pasqua ci permetterà di liberare il nostro cuore da ogni resistenza e opacità per lasciarci pienamente illuminare dalla luce di Cristo.

A tutti il mio augurio di vivere con disponibilità e con fede questi giorni di grazia!

Don Luigi Pedrini

22 Marzo 2015

Carissimi Parrocchiani,

dopo il valore del silenzio, voglio ricordare alla luce dell’episodio del roveto ardente ancora tre condizioni fondamentali che favoriscono l’autentica esperienza di Dio.

La prima è bene evidenziata dal v. 3 che riferisce la decisione coraggiosa di Mosè di verificare di persona quel roveto che brucia senza consumarsi: “Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?”. Queste parole rivelano che Mosè, nonostante l’età avanzata (ha ottant’anni) e nonostante abbia tutte le ragioni per sentirsi un uomo arrivato, è ancora capace di meraviglia e di farsi domande: “perché il roveto non brucia?”. È un uomo aperto al nuovo, aperto alla speranza. Se fosse stato un uomo amareggiato e rassegnato, si sarebbe limitato a dire: “Sì è una cosa strana, ma in fondo non mi riguarda”. E, invece, vuol capire, avvicinarsi a vedere ( = “katanoesai”). Per sé questo verbo “katanoesai” che contiene in radice il termine nous che significa intelletto dice di più che il semplice ‘vedere’: allude a un’azione che coinvolge gli occhi e, insieme, l’intelletto. Pertanto, rimanda a un guardare interessato, non superficiale che si potrebbe intendere nel senso di considerare, riflettere, cercare di comprendere. Mosè è, dunque, animato da questo atteggiamento: è un uomo vecchio, ma interiormente profondamente vivo.

La seconda condizione la cogliamo nel v. 5 e, precisamente, nel comando di togliersi i sandali. Questo togliersi i sandali è un’altra condizione fondamentale per l’autentica esperienza di Dio. Dio, infatti, lo si può incontrare se si è disposti a mettere da parte le proprie precomprensioni per aprirsi in tutta semplicità e rispetto al suo mistero. Sappiamo bene che quando si tolgono i sandali e si deve camminare a piedi nudi su un terreno che è una pietraia non si cammina bene, il passo non è più sicuro, si fa incerto. Questo significa che non si può entrare nel mistero di Dio marciando trionfalmente. Si entra con rispetto, con umiltà. Ci si presenta in punta di piedi, non volendo imporre a Dio il proprio passo, ma lasciandoci attrarre nel suo.

La terza condizione la possiamo riconoscere nel v. 7 che sottolinea l’iniziativa libera e misericordiosa di Dio a favore del popolo schiavo in Egitto: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto…”. Questa sottolineatura chiede a Mosè e a tutti quanti sono alla ricerca di Dio la disponibilità a convertirsi al volto ‘nuovo’ di Dio. Mosè fino ad allora aveva pensato Dio come Colui per il quale occorre fare molto: aveva pensato che Dio gli chiedesse di rinunciare alla sua posizione di privilegio, di coinvolgersi nelle fatiche dei suoi fratelli, di spendersi anche a costo di vedersi non compreso e rifiutato. Adesso, comincia a capire che Dio è diverso: non è uno che chiede per sé e ti usa, ma è il Dio di misericordia che prima di chiedere qualcosa si prende cura di te, ti risolleva, ti rimette in gioco per, poi, coinvolgerti in un’opera di salvezza che è anzitutto sua.

Questa terza condizione ci spinge a domandarci se la nostra fede è nella linea di primo Mosè o del secondo Mosè. Siamo nella linea del secondo Mosè se custodiamo viva la coscienza che l’opera con la quale diamo testimonianza della nostra fede non è nostra, ma è di Dio e che siamo, senza nostro merito, semplici collaboratori di qualcosa che ci precede e che è più grande di noi.

Don Luigi Pedrini

15 Marzo 2015

Carissimi Parrocchiani,

prima di congedarci da questo secondo episodio del cammino spirituale di Mosè voglio raccogliere qualche insegnamento per la nostra vita.

La straordinaria esperienza che Mosè vive sul monte Oreb mette in luce alcune condizioni fondamentali che favoriscono l’autentica esperienza di Dio. Anzitutto, la solitudine nella quale Mosè vive l’incontro con Dio, ricorda l’importanza del silenzio.

“Oggi noi abbiamo perso l’abitudine al silenzio”: l’osservazione anche se è stata fatta alcuni fa dallo scrittore Mario Pomilio, rimane alquanto attuale. L’invadenza dei mass media rischia di privarci totalmente di questa dimensione. Forse questa fuga dal silenzio nasce da un bisogno eccessivo di essere sempre connessi per il desiderio di avere informazioni su tutto o forse è motivata dal fatto – come annotava ancora lo scrittore – “che abbiamo paura di confrontarci con la verità”. Per questa strada, però – metteva in guardia lo scrittore – “non possiamo crescere: siamo condannati alla mediocrità”.

Un altro scrittore che ha richiamato il valore del silenzio è Carlo Carretto. Egli nel 1954 si è trasferito per un certo tempo nel deserto per trovare spazi di raccoglimento e di preghiera. Così, ha giustificato la sua scelta: “Vado nel deserto per disintossicarmi da una vita nella quale non trovo più Dio”. Da quell’esperienza ha tratto, poi, un libro intitolato Lettere dal deserto nel quale confessa di aver ritrovato in quella solitudine la capacità di guardare le stelle, il cielo, il sole, un tramonto, il movimento della sabbia, un fiore; di aver recuperato la sintonia con il messaggio delle cose, che è voce di Dio; ma soprattutto di aver trovato nuovamente il senso vivo della presenza di Dio e, insieme, la pace con se stesso. Quella di Carretto è, indubbiamente, una scelta estrema che richiede, peraltro, una preparazione e anche una certa predisposizione. Certo è che tutti abbiamo bisogno di trovare nella nostra vita momenti di silenzio: passa di lì la strada per scoprire la presenza di Dio in noi e intorno a noi.

Ma come potremmo definire propriamente il silenzio? Così risponde il Card. Martini: “Il silenzio è qualcosa che oggi non c’è praticamente quasi più in nessun luogo (forse sulla cima di un ghiacciaio, ma quando non passano vicino impianti di risalita per sciatori!). […] Per tentare qualche chiarimento, possiamo dire che il silenzio non è mutismo, cioè assenza di parola, di comunicazione. […] Il silenzio è quella condizione mediante la quale io riesco ad ascoltare veramente una persona. Dunque, quando ascolto davvero me stesso – ciò che capita forse molto di rado – allora comincio a capire cos’è davvero il silenzio; o quando ascolto davvero un altro, senza sovrapporre le mie parole e i miei pensieri. E ancora di più comincio a capire cos’è il silenzio, quando mi metto davvero ad ascoltare Dio. […] È una perla preziosa, e bisogna scavare molto a fondo nella propria vita e nel proprio ambiente per trovarla. Ma, grazie, a Dio, esiste e se qualcuno la cerca la troverà” (C. M. Martini, Il silenzio, Piemme, Casale Monferrato, 19943).

Don Luigi Pedrini

08 Marzo 2015

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Mosè che, davanti al roveto, vive l’esperienza inattesa dell’incontro con Dio: un Dio che lo cerca, un Dio che lo chiama per nome e che, da come si presenta, lascia trasparire quanto sia vicino a lui e al popolo di Israele oppresso in Egitto.

Ora, dopo le parole di presentazione, Dio dichiara espressamente ciò che sta per realizzare a favore del suo popolo e per il quale chiede la disponibilità a Mosè.
7Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. 8Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. 9Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono (Es 3,7-9).
In questi versetti possiamo notare come è forte l’accento di Dio sul fatto che l’iniziativa è sua: “Ho osservato… ho udito … conosco… sono sceso… ho visto”. Di riflesso possiamo cogliere in questa sottolineatura anche un velato rimprovero nei confronti di Mosé. Un rimprovero che, con le parole del Card. Martini, potremmo esplicitare così: “Vedi Mosè credevi di essere tu a farti carico del mio popolo e di dover fare tu da intermediario verso di me perché io mi rendessi sensibile. Tu non hai mai pensato che questo potesse essere opera mia e, ingenuamente, ti sei buttato a piene mani come se tutto dipendesse da te e non da me. Adesso devi ripensare tutto in questa ottica”.

Dunque, Mosè è invitato a rileggere gli avvenimenti del suo popolo mettendosi dal punto di vista di Dio. Dio, da parte sua, ritiene che Mosè sia ormai pronto per fare questo passaggio di conversione. Ed ecco, allora, il mandato che gli affida: “Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!” (v. 10).

Possiamo cogliere in questa richiesta tutta l’arte pedagogica di Dio: Egli ha saputo attendere molti anni e ha portato Mosè a distaccarsi gradualmente dal suo protagonismo. Ora che lo ha aiutato anche a rendersi conto che il vero protagonista è Lui, lo rimanda in Egitto: “Io ti mando dal faraone”. In tutto questo, non dice una parola su quello che quarant’anni prima è accaduto e con la sua parola autorevole invia Mosè proprio là dove a suo tempo ha fallito ed è stato costretto a fuggire. In questo modo, Dio riprende in mano le fila sparse della vita di Mosè e lo rimette in cammino.

Contemplando Mosè che ritorna sui suoi passi e si prepara a presentarsi al faraone per chiedere la liberazione del suo popolo, viene da dire sta che sta chiudendo una parentesi della sua vita e ritorna al punto di partenza; in realtà, non è proprio così. Infatti, le stesse cose ora sono vissute da Mosè con uno spirito diverso: egli sa bene che ciò che lo attende non è opera sua, ma è opera di Dio.

Don Luigi Pedrini