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03 Giugno 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 03 Giugno 2012

Carissimi Parrocchiani,

 tralascio anche per questa domenica la vicenda di Giuseppe, perché voglio dire una parola sulla festa di oggi – la SS.ma Trinità – e sul Convegno Mondiale delle Famiglie che si sta svolgendo a Milano con la presenza anche di Benedetto XVI.

La Trinità è un mistero grande: noi crediamo l’unico Dio che è Padre e Figlio e Spirito Santo. Per noi è impossibile dare una spiegazione della Trinità e, tuttavia, possiamo darne una ragione. Gesù ci ha detto che ultimamente Dio si può definire come “Amore”. Ora se Dio è amore in se stesso, non può essere un Dio solitario, perché amerebbe soltanto se stesso. Per questo Dio è comunione di persone, amore che si esprime nel dono di sé.

Questo amore che ci ha generato sarà anche il nostro punto di arrivo. All’inizio della nostra vita, così come al termine della vita sta l’amore di Dio. Nel mezzo sta la nostra libertà che può accogliere, fidarsi, corrispondere, oppure può chiudersi nell’indifferenza o nel rifiuto.

Accogliere l’amore di Dio vuol dire corrispondervi e testimoniarlo con l’amore verso questa nostra umanità, specialmente verso quanti tra noi sono più nel bisogno: penso, in particolare, in questo momento alle famiglie di sfollati a causa del terremoto.

L’amore verso Dio implica un sì di amore verso l’umanità. Come cristiani diciamo di sì a tutto ciò che è autenticamente umano e costruisce l’uomo e, viceversa, diciamo no a tutto quello che invece diminuisce l’uomo e ne compromette la dignità.

A questo mira anche il Convegno Mondiale delle famiglie che si concluderà oggi a Milano con il significativo tema che si è dato: “La famiglia, il lavoro, la festa”. La chiesa, illuminata dal Vangelo, dice di sì al valore della famiglia, del lavoro, della festa”.

Contro una società che non difende più la famiglia, che rischia di ridurre il lavoro a qualcosa di disumano pressato dalle esigenze del mercato, che ha perso il senso della festa scaduta soltanto a tempo libero a disposizione per l’evasione e il divertimento, la Chiesa richiama il loro valore autentico.

Oggi in sostanza il messaggio che le famiglie cristiane provenienti da tutto il mondo e riunite a Milano lanciano a tutti potremmo riassumerlo così: “Vale la pena di essere famiglia, di testimoniarne la bellezza e di battersi perché sia riconosciuta e valorizzata. Vale la pena di impegnarsi nel e per il lavoro che è una parte importante della nostra vocazione di persone, custodisce la nostra dignità, ci dà il necessario per vivere, ci permette di contribuire al bene comune. Vale la pena di ricordare che il tempo non è tutto uguale e che il tempo della festa non è un vuoto che ciascuno riempie a piacimento, ma un luogo che va rispettato, amato e difeso proprio come parte di noi stessi, come una patria. La festa ci fa ritrovare la nostra appartenenza: siamo di Dio, in Gesù Cristo, per mezzo dello Spirito”.

Il lavoro e la festa sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra i coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr. Gen. 1-2) ci dice che famiglia, lavoro e giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana (Dalla Lettera di Benedetto XVI per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie)

Don Luigi Pedrini

27 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 27 Maggio 2012

Carissimi Parrocchiani,
oggi, domenica 27 c.m., alle ore 11.15. il nostro Vescovo Mons. Giovanni Giudici, conferirà il sacramento della Confermazione a dodici ragazzi e ragazze nella nostra chiesa parrocchiale

Questi sono i loro nomi:

Battaglia Maria Sofia
Broglia Luca
Cera Alessandro
Colucci Anastasia
Corda Elisa
D’Introno Nicol
Ferrari Francesca
Lanterna Stefano
Mordà Rebecca
Patrono Sara
Ramaioli Stefano
Saletta Riccardo

 

Mentre ringraziamo il Signore per questo dono che è sempre un momento importante nel cammino di una comunità e ci fa sentire come famiglia nella Chiesa, siamo loro vicini con il ricordo e con la preghiera.

Don Luigi Pedrini

20 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 20 Maggio 2012

Carissimi Parrocchiani,

 

da questa domenica cominciamo a seguire il cammino di Giuseppe, figlio di Giacobbe, mettendoci in ascolto dei capitoli 37-50 del libro della Genesi. Questi capitoli costituiscono il cosiddetto “Ciclo di Giuseppe”. Giuseppe è, dunque, il protagonista della terza grande storia patriarcale.

Pertanto, il libro della Genesi, dopo la grande introduzione sulle origini (con i racconti della creazione; i racconti dei tre peccati di origine: quello dei progenitori, di Caino, dei costruttori della Torre di Babele; il racconto della vicenda di Noè), si sviluppa chiaramente in tre parti: il “Ciclo di Abramo” (dal cap. 12 al 25); il “Ciclo di Isacco e Giacobbe” (dal cap. 26 al 36); il “Ciclo di Giuseppe” (dal cap. 37 al 50).

 

Il ciclo di Giuseppe è il più lungo. A differenza dei due precedenti che sono più frammentati è molto armonico e unitario. È un ciclo di grande bellezza, “una preziosa corona che dà splendore a tutti i personaggi precedenti” (C.M. Martini, Due pellegrini per la giustizia, Piemme 1992, p. 28). A prova della ricchezza umana e poetica del testo sta il fatto che uno scrittore come Thomas Mann ne abbia ricavato un romanzo di ben quattro volumi.

Nonostante questo, il ciclo inizia in modo modesto. Non solo non possiede un prologo che faccia da introduzione a Giuseppe, protagonista della vicenda, ma addirittura inizia ancora con la menzione di Giacobbe. Nei primi due versetti del cap. 37 si legge:

 

Giacobbe si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero, nel paese di Canaan. Giuseppe e i suoi fratelli. Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane …

 

Il passaggio da Giacobbe a Giuseppe avviene in modo repentino e, una volta introdotti nel nuovo ciclo, assistiamo qua e là a dei ritorni al ciclo precedente: ci sono, infatti, dei testi in cui Giacobbe ritorna ad essere il protagonista della vicenda. Si verifica, così, un processo di sovrapposizione tra Giacobbe e Giuseppe, tra padre e figlio. Il figlio entra in scena e giunge ad essere protagonista mentre il padre è ancora in vita. D’altra parte, il padre è sempre sullo sfondo e rimane il punto di riferimento ultimo di tutta la vicenda: infatti, il racconto ruota attorno all’esigenza di riscoprire, da parte di tutti i figli, il dono della paternità e, quindi, di accettare in modo pacifico anche il dono della fraternità.

Ha ragione pertanto Schokel quando afferma che il riferimento al padre, è “il polo unificante nella coscienza dei fratelli” (A. Schokel, Giuseppe e i suoi fratelli, Paideia, Roma 1985, p. 12).

 

Don Luigi Pedrini

13 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 13 Maggio 2012

Carissimi Parrocchiani,

ci avviamo a concludere la vicenda di Giacobbe, un uomo che, forgiato dalle prove della vita e raggiunto dall’iniziativa con cui Dio ha fatto irruzione nella sua vita, è ormai un credente maturo che desidera comprendere il senso degli avvenimenti per corrispondere in tutto al disegno di Dio su di lui.

Gli anni della maturità di fede sono, però, anche segnati da alcuni avvenimenti assai dolorosi: il comportamento riprovevole dei figli gli procura non poche sofferenze; la morte prematura di Rachele apre in lui una ferita profonda.

Un altro fatto doloroso viene ad aggiungersi in questa situazione già molto provata: la morte del padre Isacco.

 Poi Giacobbe venne da suo padre Isacco a Mamre, a Kiriat-Arba, cioè Ebron, dove Abramo e Isacco avevano soggiornato come forestieri. Isacco raggiunse l’età di centottant’anni. Poi Isacco spirò, morì e si riunì al suo parentado, vecchio e sazio di giorni. Lo seppellirono i suoi figli Esaù e Giacobbe (Gen 35,27-29)

 Dunque, la situazione che viene a crearsi attorno a Giacobbe è davvero tragica: i figli che commettono cose orrende; la perdita della moglie amata prima e, poco dopo, del padre.

Come vive Giacobbe tutto questo? Condivido quanto afferma, al riguardo, P. Stancari: “Giacobbe vive tutto questo con animo di penitente” (P. Stancari, I patriarchi, CENS, Milano 1994, p. 112). Nel dolore che lo ferisce egli coglie anche una misteriosa forza purificatrice del male che ha commesso in passato e che ha adombrato la sua vita. In questo modo, Giacobbe riesce dare un senso al suo dolore: non un dolore sterile foriero di morte, ma un dolore che ha la fecondità di un parto. “Là dove Giacobbe sembra condannato ad una dolorosa sterilità – scrive ancora P. Stancari – è, invece, sempre più disponibile all’incontro, alla buona accoglienza, al perdono, al gesto di pietà, alla compassione per ogni creatura” (Idem).

Con il v. 1 del cap 37 – nel quale si specifica che “si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero” – si conclude sostanzialmente la storia di Giacobbe. Anche se ancora presente ed espressamente nominato nei capitoli successivi, tuttavia, non è più ormai al centro dell’attenzione. Il nuovo protagonista è Giuseppe, il figlio primogenito generato da Rachele.

Termina qui il nostro commento alla vicenda di Giacobbe. Con la prossima volta inizieremo il commento al ciclo di Giuseppe, l’altra perla narrativa che il libro della Genesi offre dopo il ciclo di Abramo e quello di Giacobbe.

 

Don Luigi Pedrini

 

06 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 06 Maggio 2012

abbiamo già ricordato alcuni fatti dolorosi accaduti nella famiglia di Giacobbe e che feriscono il suo cuore. Dobbiamo, però, subito aggiungere che anche in mezzo a queste difficoltà, il dialogo tra Dio e Giacobbe non solo non si interrompe, ma si fa sempre più profondo.

Dio apparve un’altra volta a Giacobbe, quando tornava da Paddan-Aram, e lo benedisse. Dio gli disse: “Il tuo nome è Giacobbe. Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele sarà il tuo nome”. Così lo si chiamò Israele. Dio gli disse: “Io sono Dio onnipotente. Sii fecondo e diventa numeroso, popolo e assemblea di popoli verranno da te, re usciranno dai tuoi fianchi. Il paese che ho concesso ad Abramo e a Isacco darò a te e alla tua stirpe dopo di te darò il paese”. Dio scomparve da lui, nel luogo dove gli aveva parlato (Gen 35,9-13).

Dunque, Dio interviene, parla a Giacobbe, gli cambia il nome (cioè, gli dona una nuova identità) lo chiama Israele (a significare il popolo che nascerà dalla sua discendenza e che porterà il suo nome), gli fa delle promesse.

Ma ecco il fatto doloroso che accade:

 Poi, levarono l’accampamento da Betel. Mancava ancora un tratto di cammino per arrivare ad Efrata, quando Rachele partorì ed ebbe un parto difficile. Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere: anche questo è un figlio!”. Mentre esalava l’ultimo respiro, perché stava morendo, essa lo chiamò Ben-Oni, ma suo padre lo chiamò Beniamino. Così, Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme. Giacobbe eresse sulla sua tomba una stele. Questa stele della tomba di Rachele esiste fino ad oggi (Gen 35,16-20).

Giacobbe perde improvvisamente la moglie amata. Ella, prima di morire propone di chiamare il figlio Ben-Oni che, letteralmente, significa ‘figlio del mio dolore’, volendo così sottolineare la fecondità di quella morte e, quindi, riscattarla, in certa misura, dal non senso e dall’assurdità. Giacobbe, però, decide di chiamare quel figlio Beniamino che, letteralmente, significa ‘figlio della mano destra’, cioè ‘portatore di eventi favorevoli’.

Questo particolare rivela che Giacobbe, anche in mezzo al dolore, è un uomo capace di speranza. La tragedia familiare lo ha ferito profondamente; d’ora in avanti è come se cessasse la sua vita di uomo sposato: è significativo al riguardo che i versetti immediatamente seguenti riferiscano i nomi dei suoi figli reputando la sua discendenza come un fatto concluso. E, nonostante tutto questo, egli continua a credere ad un futuro di speranza.

Don Luigi Pedrini

29 Aprile 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 29 Aprile 2012

Carissimi Parrocchiani,

in seguito al fatto doloroso di cui si sono resi protagonisti i suoi figli, Giacobbe si vede costretto a lasciare Sichem.

Nel frattempo medita di fare un pellegrinaggio a Betel. Betel è il luogo in cui Dio gli era apparso nel sogno, durante la fuga dal fratello Esaù, all’inizio del lungo viaggio che lo avrebbe condotto dallo zio Làbano. Quella notte Giacobbe, per la prima volta, aveva vissuto un vero incontro personale con Dio e aveva anche promesso che, nel caso di un esito positivo del viaggio e della permanenza presso lo zio, avrebbe accolto Dio che gli aveva parlato come il “suo” Dio e quel luogo sarebbe diventato una “casa di preghiera”: Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo […] se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio” (Gen 28,20-22). Ora Giacobbe, vuole adempiere quel voto. Ma, mentre sta pensando di fare da solo questo pellegrinaggio, Dio interviene ed imprime una nuova svolta agli avvenimenti.

 

Dio disse a Giacobbe: “Alzati, và a Betel e abita là; costruisci in quel luogo un altare al Dio che ti è apparso quando fuggivi Esaù, tuo fratello”. Allora Giacobbe disse alla sua famiglia e a quanti erano con lui: “Eliminate gli dei stranieri che avete con voi, purificatevi e cambiate gli abiti. Poi alziamoci e andiamo a Betel, dove io costruirò un altare al Dio che mi ha esaudito al tempo della mia angoscia e che è stato con me nel cammino che ho percorso”(Gen 35,1-3).

 

Si può notare la naturalezza con cui nel testo si riferisce l’iniziativa di Dio e la prontezza di Giacobbe nell’accogliere le sue parole. Giacobbe è, ormai, il credente che sta imparando a dialogare giorno per giorno con Dio e a camminare continuamente alla sua presenza. Forte di questa illuminazione dall’alto, egli convince i membri della sua famiglia a rimettersi in cammino, non senza prima chiedere anche a loro un passo ulteriore di avvicinamento a Dio e un gesto di purificazione, dopo il male che ha segnato la famiglia: “Eliminate gli dei stranieri che avete con voi, purificatevi…”.

Si verifica, però, a questo punto, un altro fatto sconcertante che apre profondi interrogativi nel cuore del patriarca. Il testo riferisce che “essi consegnarono a Giacobbe tutti gli dei stranieri che possedevano e i pendenti che avevano agli orecchi” e che “Giacobbe li sotterrò sotto la quercia presso Sichem” (Gen 35,4). Ora, tra questi “dei stranieri”, Giacobbe scopre anche le statuette che, a suo tempo, la moglie Rachele aveva sottratto al padre Làbano. Questo furto era stato una ragione dell’attrito tra zio e nipote. Infatti, quando lo zio lo raggiunge nel viaggio che determinerà la loro separazione definitiva rivendica, tra l’altro, la restituzione delle statuette. In quell’occasione Giacobbe, che era all’oscuro del fatto, aveva preso le difese di tutti i familiari e aveva rassicurato lo zio dicendo che se un giorno avesse scoperto l’autore del furto, questi non sarebbe rimasto in vita.

Ora Giacobbe scopre che il furto è stato opera di Rachele, la moglie amata. È una scoperta dolorosa che crea in lui un grande turbamento. Nel suo cuore c’è un affastellarsi di pensieri contradditori che lo riempiono di costernazione. La morte repentina di Debora, nutrice di Rebecca, che avviene proprio a Betel (Gen 35,8), viene a gettare ancor più un’ombra cupa sulla vicenda.

 Don Luigi Pedrini

22 Aprile 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 22 Aprile 2012

Carissimi Parrocchiani,
accennavo la settimana scorsa ai guai a cui Giacobbe è andato incontro subito dopo il suo insediamento nella terra di Canaan. Ed, ecco, come sono andate le cose.
Giacobbe ha una figlia, Dina. Un giorno decide di scendere in città per vedere come usano vestirsi le ragazze del luogo. Accade, però, che la sua presenza non passa inosservata e un giovane, di nome Sichem, abusa di lei. Il testo mette in luce che Sichem, pur avendo sbagliato, è tuttavia sinceramente innamorato della ragazza e vorrebbe sposarla. Intanto, Giacobbe viene informato: “Intanto Giacobbe aveva saputo che quegli aveva disonorato Dina, sua figlia, ma i suoi figli erano in campagna con il suo bestiame. Giacobbe tacque fino al loro arrivo” (Gen, 34,5)
“Aveva saputo”, “tacque”. Giacobbe, come già accennavo, è ormai un uomo che sa ascoltare in silenzio. Non è più l’uomo scaltro che aveva una soluzione brillante in qualunque situazione. Ora, è un uomo che, quantunque profondamente ferito dal male, ascolta rimanendo in silenzio.
Il dramma è costituito dal seguito della vicenda. Al ritorno dal lavoro, anche i figli sono informati del fatto. Si decide di avviare le trattative per stipulare il matrimonio, senonché, due figli – Levi e Simeone – decidono di vendicare l’offesa subita e escogitano un piano subdolo per uccidere Sichem e i membri della sua famiglia. Ecco l’esito drammatico della vicenda.

Passarono così a fil di spada Camor e suo figlio Sichem, portarono via Dina dalla casa di Sichem e si allontanarono. […] Saccheggiarono la città, perché quelli avevano disonorato la loro sorella. Presero così i loro greggi e i loro armenti, i loro asini e quanto era nella città e nella campagna (Gen 34,26-29).

Questa è la tragedia immane che accade nella famiglia di Giacobbe. È del tutto comprensibile il lamento che egli rivolge ai figli.

Allora Giacobbe disse a Simeone e a Levi: “Voi mi avete messo in difficoltà, rendendomi odioso agli abitanti del paese, ai Cananei e ai Perizziti, mentre io ho pochi uomini; essi si raduneranno contro di me, mi vinceranno e io sarò annientato con la mia casa”. Risposero: “Si tratta forse la nostra sorella come una prostituta?” (Gen 34,30-31).

Dunque, i figli non ritrattano il loro operato e la cosa strana è che Giacobbe a questo punto non è più capace di replicare nulla. Commenta significativamente, al riguardo, P. Stancati:

È come se, dal giorno in cui è entrato nel suo cammino di conversione, (a Giacobbe) mancassero le parole e gli argomenti convincenti. Non sa più come persuadere coloro che dovrebbero essere più attenti ad imparare da lui il mestiere del vivere umano. È un uomo divenuto stranamente pensoso: è un vero peccatore ed è un vero convertito, per cui è un uomo che ormai sa assumere su di sé il fallimento di tutti coloro che incontra […] Lo stesso peccato altrui, certamente non approvato, è un peccato che sopporta, di cui porta il peso in sé, di cui condivide le conseguenze. È un peccatore che si guarda intorno e riconosce subito i peccatori, verso i quali non ha più nessuna complicità e convivenza, ma verso i quali sa offrire uno sguardo pietoso (p. 108).

Don Luigi Pedrini

15 Aprile 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo),  15 Aprile 2012

Carissimi Parrocchiani,
dopo i giorni della Pasqua, torniamo a rimetterci in ascolto della vicenda del patriarca Giacobbe. L’abbiamo lasciato nei pressi di Succot mentre si prepara ad entrare e a stabilirsi definitivamente nella sua terra natale, la terra di Canaan.

Per Giacobbe inizia una tappa nuova della sua vita. Egli stesso è un uomo cambiato. Dopo la notte della lotta con Dio che ha segnato la sua conversione, ora guarda in modo nuovo persone e cose. Avendo fatto l’esperienza della fedeltà di Dio nei suoi confronti, è capace di guardare ogni persona con uno sguardo di misericordia e di comprensione. Non è la compassione che nasce da un atteggiamento di superiorità che Io porta a guardare tutto a distanza senza lasciarsi coinvolgere; è, invece, la compassione che nasce dalla consapevolezza di essere peccatore e, nello stesso tempo, oggetto di una insperata misericordia.

Da questo momento vediamo in Giacobbe i tratti di un uomo pacificato. Infatti, il testo precisa che Giacobbe, dopo la separazione da Esaù, arrivò sano e salvo alla città di Sichem, che è nel paese di Canaan, quando tornò da Paddan-Aram e si accampò di fronte alla città (Gen. 33,18). “Sano e salvo” in ebraico è detto shalem che ha la stessa radice del sostantivo shalom che significa pace.

Anche gli abitanti di Sichem hanno una buona impressione di Giacobbe e della sua famiglia e, per questo, mostrano verso di lui un atteggiamento di cordiale accoglienza. Questi uomini sono gente pacifica: abitino pure con noi nel paese e lo percorrano in lungo e in largo… Così, dichiara una delle persone più autorevoli del luogo.

Le difficoltà, però, non tardano a manifestarsi. Le persone che gli stanno attorno, sia all’esterno, sia all’interno della cerchia familiare, combinano guai di ogni sorta.
Eppure, Giacobbe, di fronte a questi fatti dolorosi, rimane spettatore pensoso e parco di parole. Egli conserva viva memoria di quante peripezie è stato protagonista in passato; sa bene di aver procurato guai e sofferenze a persone care. Ora, davanti al male, si sente coinvolto in prima persona e, persine, in certa misura, corresponsabile. Se ne fa carico e, con pazienza, sopporta in silenzio e nella solitudine. È giusto sottolineare questa nota di solitudine, perché Giacobbe, da quando si è convcrtito, conosce anche la dimensione della solitudine.

Egli, pur avendo tanta gente attorno a sé – il Signore gli ha concesso una famiglia numerosa e anche la possibilità di mantenere al suo servizio servi e serve – è, tuttavia, un uomo solo. La conoscenza di Dio, che ha acquisito dopo l’esperienza drammatica della lotta, lo porta a guardare gli avvenimenti in un orizzonte sconosciuto ai più. Non trova nessuno attorno a lui col quale poter dialogare sulla stessa lunghezza d’onda, nessuno a cui poter raccontare le sue cose. In questa solitudine si trova a far fronte a guai di ogni genere.
Ma di questo parlerò la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

1 Aprile 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo),  1 Aprile 2012

Portarono il puledro da Gesù. Vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra.
Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi.
Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore ”
(Mc 11,7-10).

Carissimi Parrocchiani,
oggi noi guardiamo Gesù che entra a Gerusalemme: ormai è giunta la Sua ora, l’ora tanto attesa.
Egli si presenta mite, buono, pacifico, apparentemente debole. Così, Gesù ci insegna che la grande forza del mondo è la bontà: il vero forte è l’uomo buono; il vero forte è colui che ha vinto la violenza dentro di sé; vincitore non è colui che calpesta la vita degli altri, ma colui che da la vita agli altri.
Iniziando la Settimana santa, la settimana più bella e importante dell’anno liturgico, siamo chiamati a uniformare il nostro passo a quello del Signore, così che la sua strada sia anche la nostra strada. Con questa speranza auguro a tutti voi di vivere bene questi giorni, facendo tesoro delle intense celebrazioni liturgiche del triduo pasquale, custodendo nel cuore, con tutta la cura possibile, la pace: solo un cuore in pace può cantare con gioia l'”Alleluia” pasquale.
Buona Settimana Santa!

Don Luigi Pedrini

25 Marzo 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 25 Marzo 2012

Carissimi Parrocchiani,

concludevo l’altra volta dicendo che Esaù, dopo l’incontro con il fratello, riparte e si dirige verso Seir; Giacobbe, invece, prende un’altra direzione e va a Succot.

[17] Giacobbe invece si trasportò a Succot, dove costruì una casa per sé
e fece capanne per il gregge. Per questo chiamò quel luogo Succot.

Dunque, Giacobbe entra in Succot. Succot in ebraico significa “capanne”. Gli ebrei hanno una grande festa che si chiama festa delle Capanne. Anche, nella vita di Gesù si parla di una sua partecipazione a questa festa. Così, ad esempio, nel Vangelo di Giovanni si legge: “Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Capanne… Vi andò anche lui…” (Gv 7,2.10).
La festa si celebrava in autunno e ricordava il soggiorno degli ebrei sotto le tende durante il cammino nel deserto, all’uscita dall’Egitto, prima di entrare nella terra promessa. Ricordava anche le successive occasioni in cui Israele è ritornato ad abitare sotto le tende, come ad esempio, durante l’esilio, quando gli israeliti dovettero lasciare la propria terra e vivere molti anni in terra straniera.
Per la festa gli ebrei erano soliti costruire piccole capanne e per una settimana dormivano all’aperto sotto le frasche. Era il modo di ringraziare il Signore che aveva concesso loro una dimora stabile e, nello stesso tempo, per ricordare il carattere pellegrinante della vita umana: per quanto l’uomo cerchi di garantirsi la stabilità, rimane pur sempre su questa terra un pellegrino. Dirà più tardi l’autore della Lettera agli Ebrei che noi rimaniamo pur sempre “stranieri e pellegrini sulla terra” (Eb 11,13) e che “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Eb 13,14).
Giacobbe nel suo viaggio di ritorno non è ancora entrato nella terra promessa. Sta sulla soglia e, per l’ultima volta, trascorre la notte sotto una tenda. Poi, una volta entrato, abbandonerà definitivamente la vita nomade.
In tutto questo noi possiamo leggere la parabola della vita umana: anche noi, come Giacobbe, siamo per tutta la vita pellegrini verso la terra promessa, in attesa di poterci stabilire definitivamente nella Succot eterna che il Signore ha già preparato per noi. Ce lo ricorda esplicitamente Gesù nel Vangelo:

[1] “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.
[2] Nella casa del Padre mio vi sono molti posti […] Io vado a prepararvi un posto;
[3] quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me,
perché siate anche voi dove sono io… “.

Don Luigi Pedrini