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19 Luglio 2015
Carissimi Parrocchiani,
avviandoci a concludere questa riflessione nella quale abbiamo posto attenzione al faraone e a Mosè, principali protagonisti della vicenda della ‘dieci piaghe’, ci domandiamo cosa può dire tutto questo a ciascuno di noi. Più precisamente possiamo porci questa duplice domanda: chi è il faraone in noi? Chi è Mosè in noi?
Quanto alla prima domanda possiamo rispondere che noi vestiamo i panni del faraone ogni qualvolta ci lasciamo dominare da quelle affezioni disordinate che ci impediscono di donarci in modo disinteressato, di amare e di perdonare i nostri fratelli. Nel faraone possiamo vedere anche quella preoccupazione per noi stessi e per la nostra immagine che in alcune situazioni in cui ci dobbiamo esporre pubblicamente ci rende meno naturali, meno noi stessi.
Oltretutto bisogna considerare che questo ‘faraone’ che spadroneggia nel cuore è una forza invasiva e subdola. Il faraone d’Egitto si presentava come una persona perbene, nobile, aperta al dialogo. Ma, poi, all’atto pratico, doveva far valere la sua autorità e la sua immagine di ‘faraone’ e per questo poneva dei veti anche quando comprendeva che la scelta giusta sarebbe stata quella di andare oltre gli angusti confini del potere e del tornaconto personale.
Gesù nel vangelo ricorda che la scaturigine di tutte queste resistenze faraoniche va cercata nel cuore: dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini escono i propositi di male (Mc 7,21). Sta lì la radice degli atteggiamenti faraonici di sopraffazione che spingono a spadroneggiare sugli altri. Da parte nostra è impossibile estirpare del tutto queste radici: quello che possiamo fare è non stancarci di contrastarle perché la loro presenza non si trasformi in un dominio dispotico che ci priva di quella libertà di amare a cui il Signore ci chiama.
Quanto alla seconda domanda – chi è Mosè in noi? – possiamo dire che stiamo camminando sulle orme di Mosè ogni qualvolta che, assecondando l’azione dello Spirito Santo, ci mettiamo davanti alla realtà non con un atteggiamento di possesso, ma di accoglienza.; ogni qualvolta siamo disposti a metterci in gioco per cercare di capire la realtà (come Mosè che vuole avvicinarsi a vedere per capire come mai il roveto brucia senza consumarsi). Ancora, siamo sulle orme di Mosè ogni qualvolta siamo disposti a farci carico delle situazioni senza cedere alla precipitazione, senza volerle padroneggiare ad ogni costo: questo perché crediamo che Dio sa bene dove vuole condurci e, pertanto, camminiamo con pazienza, accettando anche i tempi lunghi, senza scoraggiarci di fronte alle difficoltà. E, infine, camminiamo al passo di Mosè ogni qualvolta facciamo spazio alla carità come forza che pazienta, si adatta, si piega e, tuttavia, è tenace nel perseguire il fine a cui mira.
Don Luigi Pedrini
12 Luglio 2015
Carissimi Parrocchiani,
al chiarimento circa le dieci piaghe quali ‘ punizioni’ inflitte all’Egitto ne aggiungiamo un secondo circa il tema dell’indurimento del cuore del faraone. L’espressione secondo la quale Dio ‘indurisce’ il cuore del faraone rendendolo ostinato ricorre frequentemente nel racconto delle dieci piaghe (cfr. 4,21; 7,3.14.22; 8,11.15.28, ecc.).
Per fare luce sul senso di questa espressione dobbiamo precisare che l’indurimento del cuore è quell’atteggiamento interiore per cui non si vuole recedere dalla propria posizione, anzi ci si irrigidisce, nonostante si percepisca interiormente che sarebbe giusto cedere, cambiare posizione e venire incontro alla richiesta fatta.
Il cedere alla richiesta di Mosè appariva al faraone come una compromissione del suo potere. E dal momento che questo gli sembrava inaccettabile, ha reso sempre più duro il suo cuore.
Generalmente a questo atteggiamento interiore si arriva o per la strada dell’ostinazione oppure per quella della debolezza.
Ci si indurisce per ostinazione quando ci si attacca gelosamente alle proprie posizioni, idee, vedute. Si può incontrare questo atteggiamento non solo al di fuori in chi ha posizioni diverse dalle nostre, ma anche nei nostri ambienti in chi è convinto di avere in mano la verità e, di conseguenza, non cede perché vuole difendere la propria identità ed essere fedele alla propria storia.
Ci si indurisce, invece, per debolezza quando sperimentando il nostro limite nell’amare le persone, specie quelle che ci hanno creato difficoltà o ci hanno fatto dei torti. decidiamo di comportarci nel rapporto con gli altri – uso l’espressione di Gesù – così come fanno i pagani (Lc 6,31-35). E allora riserviamo il saluto solo a quelli che ci salutano; facciamo del bene a quelli da cui possiamo riceverne; sorridiamo a chi ci sorride o alle persone che ci incutono un po’ di timore. Questa debolezza è, in fondo, la nostra paura di perdere, come il faraone e, non essendo disposti a questo, finiamo per indurire il cuore. Anzi, ultimamente, alla radice di questa debolezza sta la paura di quel ‘perdere la vita’ che, secondo la parola di Gesù, è la sola strada che ci permette di realizzare veramente noi stessi e di essere suoi discepoli.
In questo modo, finiamo, come dice san Paolo, per fare il male che non vogliamo. Vediamo il bene, ma le nostre rigidità interiore ci impediscono di attuarlo. E allora ecco che il Signore ‘indurisce il nostro cuore’, cioè ci fa conoscere i limiti che ci portiamo dentro, permette che battiamo la testa, per renderci conto che c’è un potere faraonico in noi che vuole fare da padrone.
Per questa strada impariamo a gridare a Lui e a chiedere che la sua misericordia ci purifichi e ci salvi.
Don Luigi Pedrini
05 Luglio 2015
Carissimi Parrocchiani,
il racconto delle dieci piaghe inflitte all’Egitto al fine di convincere il faraone a lasciar partire Israele e permettergli di tornare in patria, può suscitare in noi qualche perplessità. Infatti, sembra rivelare un volto di Dio che contrasta con l’immagine del Dio misericordioso al quale continuamente Gesù ci rimanda: qui vediamo non un Dio che perdona, ma una Dio che ‘punisce’.
È necessario allora intendere bene il significato delle dieci piaghe: è legittimo parlarne in termini di punizioni da parte di Dio?
Al riguardo, dobbiamo constatare che la categoria di punizione in rapporto a Dio non è estranea alla Scrittura. Questa categoria fa la sua comparsa già all’inizio del libro della Genesi, quando Dio interviene per ‘punire’ l’uomo e la donna a motivo della loro disobbedienza.
In realtà ciò che la Scrittura presenta in termini di castigo è il male che l’uomo fa a se stesso nel momento in cui opera in modo contrario ai dettami di Dio. Nel nostro caso, le piaghe d’Egitto sono il male che il faraone e il popolo egiziano infliggono a se stessi rifiutandosi di accogliere la parola liberatrice di Dio e, di conseguenza, restando prigionieri dei propri condizionamenti.
Sono particolarmente illuminanti in proposito due considerazione del Card. Martini. Egli, anzitutto, fa notare che
Tutte le volte che non abbiamo ascoltato la Parola del Signore, che ci voleva più veri, più autentici, più rispondenti all’amore, più pronti ad offrire un servizio che a esigerlo, abbiamo sentito in noi dei segni di squilibrio interiore; esso sono la manifestazione delle piccole schiavitù e dei condizionamenti a cui cediamo. Sono tutte quelle forme di malessere che ci rodono interiormente: forme di paura nell’affrontare alcune situazioni, certe forme penose e prolungate di stanchezza, certe forme di malumore, certe incapacità a pregare…. Insomma, il non saper essere felici. Tutte le volte che non c’è piena felicità, vuol dire che c’è qualcosa, qualche condizionamento che ci frena… (C.M. Martini, Vita di Mosè, Borla, Roma 19845, p. 56).
In secondo luogo, egli afferma che è possibile parlare di un ‘castigo fondamentale’ al quale si possono ricondurre, poi, tutti gli altri. Tale castigo è, a suo parere, l’incapacità di amare”, cioè “l’incapacità di realizzare effettivamente l’amore di Dio, soprattutto quello del prossimo”. Questo perché
L’amore di Dio può anche essere facile; difficile è quello del prossimo, che consiste nel rispondere alle vere situazioni di disagio del mio fratello, anche là dove il mio fratello non merita il mio aiuto, anzi lo demerita. Se noi non siamo capaci di affrontare queste situazioni, ecco che ne consegue scontentezza, disagio e disgusto, che coinvolgono le persone, le comunità, i gruppi, le istituzioni: è il castigo dell’Egitto (Idem, pp. 56-57).
Don Luigi Pedrini
Avvisi – 28 Giugno 2015
- Lunedì 29 c.m. ricorre la Solennità del Santi Pietro e Paolo. Dovendo partire coi ragazzi alle ore 8.00 per una gita in montagna la s. Messa è anticipata alle ore 7.30.
- Prosegue l’esperienza del GREST che si concluderà venerdì sera con il consueto spettacolo finale che si farà in salone e al quale siamo tutti invitati. Sul tavolino c’è il foglio in cui è riportato il programma dettagliato di questa terza settimana.
- Sul tavolino è pure disponibile il giornalino nuovo del mese.
28 Giugno 2015
Carissimi Parrocchiani,
dopo aver rivolto la nostra attenzione alla figura del faraone, ora guardiamo al secondo grande protagonista di questa vicenda che designiamo comunemente con il titolo di ‘piaghe d’Egitto’.
Chi è dunque Mosè? Mosè appare un uomo profondamente libero di fronte al faraone. La consapevolezza di essere mandato dal Signore per questa missione e di poter contare sulla forza dello Spirito di Dio le rende capace di pazientare, di adattarsi e, nello stesso tempo, di mantenersi fermo, tenace nel richiedere ciò che è giusto.
Mosè affronta questa non facile situazione da uomo pienamente affidato alla chiamata di Dio e, di riflesso, del tutto distaccato dalle proprie risorse umane.
Al riguardo, è significativo il suo diverso atteggiarsi in questa situazione rispetto all’iniziativa presa a suo tempo al principio della vita adulta. Allora aveva optato per la strada della violenza, scelta ritenuta necessaria per prendere in mano la situazione con efficacia. Ora, invece. imbocca la strada della persuasione senza cedere alla tentazione di imporsi con la forza. È significativo al riguardo che nella prima iniziativa Mosè non dica una parola e passi subito all’azione; nella seconda, invece, fa leva sulla parola, sul dialogo che accompagna anche con segni che danno autorità e credibilità a ciò che va annunciando.
Così da una parte, Mosè è l’uomo che si fa portatore della Parola di Dio al faraone. Nel confronto con il faraone incontriamo continuamente il ritornello. “Va’ dal faraone e parlagli…”. E Mosé, in fedeltà alla Parola, accetta ogni volta di ritornare dal faraone e, pur riscontrando in lui un’ostinazione dura a morire, insiste perché abbia a credere nella Parola del Signore.
Dall’altra, Mosè è anche l’uomo dei segni. Le dieci piaghe d’Egitto sono tra i segni più significativi da lui compiuti. Sono segni in progressione: si passa dall’iniziale puro segno dimostrativo per cui Aronne getta davanti al faraone il bastone che si trasforma in serpente (segno che non viene accolto, perché i sapienti d’Egitto riescono a fare la stessa cosa) ai segni sempre più molesti e più duri (le mosche, l’acqua che non si può bere…) fino alla decima piaga (la morte dei primogeniti egiziani) che vincerà la durezza di cuore del faraone e lo spingerà ad acconsentire alla richiesta avanzata da Mosè.
A questo punto si impone, però, la necessità di far luce sul significato da attribuire alle dieci piaghe, dato che, a prima vista, sembrano mostrare un Dio che castiga.
Ne parleremo la prossima settimana!
Don Luigi Pedrini
21 Giugno 2015
Carissimi Parrocchiani,
riflettendo sulla figura del faraone, abbiamo potuto constatare in lui un atteggiamento ambivalente.
Da una parte si dimostra un uomo liberale, intelligente, aperto al dialogo: quantunque le parole di Mosè lo mettano in crisi, tuttavia, lo ascolta, non lo fa arrestare, non lo fa uccidere, accetta il confronto; dall’altra, però, fino all’ultima piaga – quella decisiva – non se la sente di concedere ad Israele di ritornare nella sua terra. Dopo l’iniziale disponibilità all’indomani della piaga che colpisce l’Egitto ritorna puntualmente sulla sua posizione intransigente di partenza.
In questo atteggiamento ambivalente possiamo riconoscere il limite tipico dell’uomo che si lascia condizionare dalla posizione che occupa e dal ruolo che svolge.
Il faraone da una parte intuisce che il tempo è maturo perché Israele lasci l’Egitto e che la strada prospettata da Mosè è quella giusta; dall’altra, però, teme che la partenza di Israele incontri la disapprovazione del suo popolo e abbia anche dei contraccolpi negativi non indifferenti sull’economia egiziana.
Così, il timore di fare brutta figura di fronte al suo popolo e di compromettere in certa misura il suo potere spiega l’atteggiamento di resistenza che assume e che mantiene sostanzialmente fino all’ultima piaga. Si spiega anche l’atteggiamento molto rigido e duro che ha assunto all’inizio del confronto con Mosè. La sua risposta è stata:
[17] Rispose: “Fannulloni siete, fannulloni! Per questo dite: Vogliamo partire, dobbiamo sacrificare al Signore. [18] Ora andate, lavorate! Non vi sarà data paglia, ma voi darete lo stesso numero di mattoni” (5,16-17).
Alla radice di questo atteggiamento ambivalente intravediamo il dramma interiore di questo uomo di governo per cui vorrebbe andare incontro alle richieste di Mosè e per questo arriva a riconoscere persino di essersi sbagliato, di aver peccato, ma subito dopo ritratta tutto quello che ha detto e ritorna sui suoi passi per timore di mettere in crisi tutto il sistema economico dell’Egitto e di fallire come sovrano.
Concludendo possiamo dire di trovarci di fronte a un uomo abile, intelligente, anche nobile d’animo, ma interiormente condizionato dal suo ruolo di governo e di potere.
Don Luigi Pedrini
14 Giugno 2015
Carissimi Parrocchiani,
seguendo la vicenda delle piaghe d’Egitto ci siamo soffermati sulla figura del faraone. Anche nei suoi atteggiamenti di resistenza ad assecondare il disegno di Dio e nella progressiva apertura del suo cuore possiamo cogliere qualche insegnamento per la nostra vita.
Giù abbiamo avuto modo di riconoscere in lui un uomo fondamentalmente onesto e aperto al confronto leale. In effetti egli appare come un uomo schietto che dice pane al pane e vino al vino: un uomo che ha il coraggio di dire le cose come sono. Lo si vede chiaramente nel dialogo che fa seguito alla piaga della cavallette.
[8] Mosè e Aronne furono richiamati presso il faraone, che disse loro: “Andate, servite il Signore, vostro Dio! Ma chi sono quelli che devono partire?”. [9] Mosè disse: “Andremo con i nostri giovani e i nostri vecchi, con i figli e le figlie, con il nostro bestiame e le nostre greggi perché per noi è una festa del Signore”. [10] Rispose: “Il Signore sia con voi, come io intendo lasciar partire voi e i vostri bambini! Ma badate che voi avete di mira un progetto malvagio. [11] Così non va! Partite voi uomini e servite il Signore, se davvero voi cercate questo!” (Es. 10,8-11).
Come si vede, il faraone è molto esplicito: asseconda la richiesta di Mosé, ma si rende conto che la richiesta di allontanarsi tre giorni di cammino portando con sé tutta la famiglia nasconde l’intenzione di uscire dall’Egitto per sempre. Per questo senza mezzi termini dichiara che la richiesta nasconde un secondo fine, “un progetto malvagio”. Se l’intenzione è davvero quella di sacrificare al Signore, per questo non è necessario che partano gli uomini con l’intera famiglia.
Il faraone è anche un uomo disposto a ricredersi e a non irrigidirsi sui suoi principi. Così, ad esempio, dopo la piaga delle rane, si dimostra disponibile a lasciare partire Israele, contrariamente a all’indisponibilità manifestata fino a quel momento: Fece chiamare Mosè e Aronne e disse: “Pregate il Signore, perché allontani le rane da me e dal mio popolo; io lascerò andare il popolo, perché possa sacrificare al Signore!” (Es 8,4).
Non solo. Oltre a saper prendere le distanze dalle sue posizioni, è un uomo che ha l’umiltà di riconoscere i propri sbagli. Dopo la piaga della grandine dice a Mosè ad Aronne: “Questa volta ho peccato: il Signore ha ragione; io e il mio popolo siamo colpevoli. Pregate il Signore: basta con i tuoni e la grandine! Vi lascerò partire e non resterete qui più oltre” (Es 9,27-28). E dopo l’ultima piaga, quella decisiva che lo convincerà definitivamente a venire incontro alla richiesta di Mosè e di Aronne confessa: “Ho peccato contro il Signore, vostro Dio, e contro di voi. Ma ora perdonate il mio peccato anche questa volta e pregate il Signore vostro Dio perché almeno allontani da me questa morte!” (Es 10,16-17) .
Dunque, nel faraone vediamo un uomo che si sforza di capire la situazione degli altri e che sa riconoscere i propri sbagli. Le parole della seconda citazione manifestano una grande umiltà: sono parole che anticipano quelle che Gesù metterà in bocca al figliol prodigo: “Padre ho peccato contro il Cielo e contro di te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (Lc 15,18-19)
Don Luigi Pedrini
31 Maggio 2015
Carissimi Parrocchiani,
proseguendo il racconto della vicenda di Mosè, ora dovremmo considerare gli interventi potenti di Dio – le cosiddette dieci piaghe – con cui ha piegato il cuore del faraone e lo ha convinto a lasciare uscire Israele dall’Egitto.
Si tratterebbe di passare in rassegna le singole piaghe – la piaga delle mosche, delle acque del Nilo che si tingono di rosso, delle ulcere, delle cavallette… – e cercare di leggerne il significato. Preferisco, però, non seguire questa strada e – come suggerisce sant’Ignazio nel suo libro sugli Esercizi Spirituali – porre attenzione con voi ai protagonisti di questi eventi che sono sostanzialmente due: Mosè e il faraone. Guardiamo, dunque, a queste due figure per cercare di capire cosa c’è in noi del faraone, che cosa c’è in noi di Mosé; consideriamo come i rapporti tra Mosè e il faraone interpellano la nostra vita e ci stimolano a lasciare ciò che è fuorviante per valorizzare ciò che invece può alimentare in noi un’esistenza autentica. Sullo sfondo teniamo come punti di riferimento i capitoli 5-11 che raccontano le dieci piaghe e come si è evoluto l’atteggiamento del faraone sia nei confronti di Dio, sia nei confronti di Israele.
Chi è dunque, il faraone? Dai testi appare, anzitutto, come un uomo che sa trattare con le persone, un uomo liberale, aperto al confronto. Così si apre il primo dialogo tra Mosè e il faraone
In seguito, Mosè e Aronne vennero dal faraone e gli annunciarono: “Così dice il Signore, il Dio d’Israele: ‘Lascia partire il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto!’”. Il faraone rispose: “Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce e lasciare partire Israele? Non conosco il Signore e non lascerò certo partire Israele!” (Es 5,1-2).
A prima vista, sembrerebbero parole sprezzanti, ma forse non è così. In fondo, il faraone ha ragione dal suo punto di vista: egli fa presente che non conosce il Signore. Pertanto, non vede la ragione per cui Mosè debba imporgli una religione diversa dalla sua e di conseguenza la ragione per cui gli Israeliti dovrebbero partire. Più avanti, precisamente dopo la piaga delle mosche, vediamo in lui un uomo disposto a fare dei passi di avvicinamento, a trattare, pur di non chiudere il dialogo.
Il faraone fece chiamare Mosè e Aronne e disse: “Andate a sacrificare al vostro Dio, ma nel paese”. Mosè rispose: “Non è opportuno far così, perché quello che noi sacrifichiamo al Signore, nostro Dio, è abominio per gli Egiziani. Se noi facessimo, sotto i loro occhi, un sacrificio abominevole per gli Egiziani, forse non ci lapiderebbero? Andremo nel deserto, a tre giorni di cammino, e sacrificheremo al Signore, nostro Dio, secondo quanto egli ci ordinerà!”. Allora il faraone replicò: “Vi lascerò partire e potrete sacrificare al Signore nel deserto. Ma non andate troppo lontano e pregate per me” (Es 8,21-24).
In questo testo vediamo bene lo sforzo di quest’uomo per adattarsi e venire incontro. Prima dice di fare il sacrificio in Egitto; poi, accogliendo la richiesta di Mosè, concede di uscire dal paese, anche se chiede di non andare lontano: tre giorni di cammino gli sembrano eccessivi. Addirittura, aggiunge: “Pregate per me”.
Don Luigi Pedrini
24 Maggio 2015
Carissimi Parrocchiani,
abbiamo lasciato Mosè in procinto di dare inizio in Egitto alla missione liberatrice del suo popolo. Ora, Mosè è un uomo interiormente rinfrancato dai segni con cui Dio ha attestato la sua volontà di essergli accanto e di dargli la forza necessaria per presentarsi al faraone e intercedere a favore degli israeliti.
Il libro dell’Esodo riferisce che la richiesta da lui avanzata ha incontrato la risposta negativa del faraone. Non solo egli si rifiuta di sgravare gli israeliti dai lavori forzati e di lasciarli partire, ma addirittura ne aumenta il carico. In quel giorno il faraone diede questi ordini ai sovrintendenti del popolo e agli scribi: “Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni, come facevate prima. Andranno a cercarsi da sé la paglia. Però voi dovete esigere il numero di mattoni che facevano finora, senza ridurlo. Sono fannulloni; per questo protestano: ‘Vogliamo partire…’” (Es 5,6-8).
Così, la mano del faraone diventa ancora più pesante sui figli di Israele al punto che la situazione diventa insostenibile e, pertanto, le persone più rappresentative del popolo prendono l’iniziativa di andare a reclamare dal faraone: “Perché tratti così noi tuoi servi? Non viene data paglia ai tuoi servi, ma ci viene detto: ‘Fate i mattoni!’. E ora i tuoi servi sono bastonati e la colpa è del tuo popolo!” (Es 5,15-16).
Il faraone, però, è irremovibile, così che lo scontento cresce tra gli israeliti e la protesta si leva anche nei confronti di Mosè e di Aronne: “Il Signore guardi a voi e giudichi, perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri, mettendo loro in mano la spada per ucciderci!” (Es 5,21).
Per Mosè è un momento di smarrimento e di profondo dolore. Ancora una volta vede profilarsi uno scacco alla sua buona volontà e generosità. Ora, però, Mosè è uomo umile che sta imparando a non far conto sulle proprie forze, ma su Dio che lo ha chiamato e inviato. Per questo chiede spiegazioni al Signore: “Signore, perché hai maltrattato questo popolo? Perché dunque mi hai inviato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male a questo popolo, e tu non hai affatto liberato il tuo popolo!” (Es 5,22-23).
Ed ecco la risposta puntuale di Dio: Il Signore disse a Mosè: “Ora vedrai quello che sto per fare al faraone: con mano potente li lascerà andare, anzi con mano potente li scaccerà dalla sua terra!” […] Allora gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando stenderò la mano contro l’Egitto e farò uscire di mezzo a loro gli Israeliti!” (Es 6,1; 7,5).
A questo punto inizia il racconto di quegli interventi potenti di Dio – noti come le dieci piaghe d’Egitto – con i quali egli piegherà il cuore indurito del faraone e otterrà per gli israeliti il permesso di abbandonare l’Egitto e intraprendere la via del ritorno nella terra di Abramo.
Ma di questo vedremo la prossima volta.
Don Luigi Pedrini