Cari fratelli,
la centralità di Cristo nella liturgia e nella spiritualità, nella lettura della storia e della propria esistenza è la grande premessa di questa celebrazione.
Contro gli squilibri devozionalistici, contro la tentazione della superstizione o dei surrogati religiosi, il fedele deve richiamare se stesso all’autenticità della sua fede fondata sul primato del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Il riconoscimento di questa fede non avviene solo attraverso la professione delle labbra ma soprattutto attraverso l’attuazione dell’amore.
E solo così che si è ammessi al Regno.
Nell’amore gratuito ed universale verso il prossimo si vive quella relazione vitale col Cristo che è lo specifico del cristianesimo.
Il vangelo osserva che l’unione con Cristo attraverso gli atti d’amore durante l’esistenza terrena è in pratica l’inizio della comunione eterna con lui.
Il lezionario odierno ci proietta anche verso il senso ultimo della storia.
Già Ezechiele fa balenare un regno in cui il pastore non sarà un re ma Dio stesso.
Nel vangelo abbiamo la celebrazione del giudizio ultimo in cui si svelerà il senso del nostro itinerario terreno, in cui apparirà la reale qualità dell’esistenza di ogni uomo.
Paolo poi ci presenta un mirabile affresco escatologico in cui disegna l’armonia del Regno verso il quale noi siamo indirizzati, un’armonia che sarà piena comunione.
Nessun frammento di bene cade nel vuoto.
Dio ha tracciato un disegno anche nella nostra trama confusa e spesso lacerata.
La chiusura dell’anno liturgico è segnata da questa solennità che è simile ad un’abside in cui domina la figura di Cristo Re e Signore.
Di fronte al suo sguardo siamo invitati ad un bilancio della nostra esistenza, delle nostre miserie e dei nostri splendori, ricordando che l’ultima parola che Gesù pronuncia nel vangelo di Matteo, letto quest’anno, è: “Io sarò con voi sino alla fine dei tempi”.
Don Emilio