Carissimi Parrocchiani,
abbiamo ricordato l’ambiente amico che si crea attorno a Davide nonostante l’ostilità di Saul nei suoi confronti. Ora, però, dobbiamo dire che questa situazione a un certo punto precipita e prende una piega decisamente a sfavore di Davide. L’ostilità di Saul si fa sempre più manifesta; egli si è convinto che Davide è un ostacolo alla sua regalità e che pertanto va tolto di mezzo.
Così Davide, dopo essersi congedato dall’amico Gionata, dà inizio a un periodo in cui vive sostanzialmente alla macchia per sfuggire alle mani di Saul. Sono anni nei quali dimora – particolare questo che ha del paradossale – fuori della terra promessa, quella terra che in quanto re scelto e consacrato da Dio gli appartiene. Il deserto diventa il suo rifugio e vive di espedienti.
Riguardo a questi anni si possono dare le interpretazioni più diverse: anni di fuga e di nascondimento; anni di brigantaggio e di razzia; anni di dissidenza politica; anni di doppio gioco con i nemici di sempre, i Filistei (cfr Rossi del Gasperis, Prendi il libro, 122). Ciascuna di queste letture coglie aspetti che hanno segnato effettivamente questa esperienza di esilio.
Tuttavia, l’interpretazione che maggiormente coglie nel segno e fa luce sulle risonanze interiori di Davide ce la offre egli stesso nei due colloqui che intrattiene a distanza con Saul che lo sta inseguendo nel deserto. Nel primo colloquio così si rivolge al re: “Sia giudice il Signore tra me e te e mi faccia giustizia il Signore nei tuoi confronti; ma la mia mano non sarà mai contro di te. Contro chi è uscito il re d’Israele? Chi insegui? Un cane morto, una pulce. Il Signore sia arbitro e giudice tra me e te, veda e difenda la mia causa e mi liberi dalla tua mano” (1 Sam 24,13.15-16). Nel secondo colloquio così lo incalza: “Perché il mio signore perseguita il suo servo? Che cosa ho fatto? Che male si trova in me? Ascolti dunque il re, mio signore, la parola del suo servo: se il Signore ti incita contro di me, voglia accettare il profumo di un’offerta; ma se sono gli uomini, siano maledetti davanti al Signore, perché oggi mi scacciano lontano, impedendomi di partecipare all’eredità del Signore, dicendo: “Va’ a servire altri dèi”. Almeno non sia versato sulla terra il mio sangue lontano dal Signore, ora che il re d’Israele è uscito in campo per ricercare una pulce, come si insegue una pernice sui monti” (1 Sam 26,18-20).
Cogliamo in queste parole la fotografia della situazione: da una parte c’è Saul che gli dà la caccia con i suoi uomini; dall’altra c’è Davide che davanti al pericolo che lo sovrasta si sente come un cane morto, una pulce che si insegue alla stregua di una pernice sui monti.
Sono degne di nota le parole con cui Davide avvia il dialogo con Saul: “Sia giudice il Signore tra me e te” (1 Sam. 24,13). Davide anche in questa situazione in cui conduce una vita randagia ha l’umiltà di affidare la sua vita e la sua causa al Signore. Egli sa bene di essere il re eletto, sa bene di non aver nulla da rimproverarsi nei confronti di Saul e, tuttavia, riconosce che il giudizio vero su quello che sta accadendo spetta solo a Dio: per questo si rimette totalmente nelle sue mani.
In due occasioni con i suoi uomini si trova nella possibilità di poter infierire su Saul e di liberarsene definitivamente, ma con assoluta risolutezza si astiene dall’alzare la mano contro di lui e lo impedisce anche ai suoi compagni: “Mi guardi il Signore dal fare simile cosa al mio signore, al consacrato del Signore, dallo stendere la mano su di lui, perché è il consacrato del Signore” (1 Sam 24,7).
Queste parole sono rivelative dell’alta concezione che Davide aveva riguardo al re in quanto consacrato da Dio.
don Luigi Pedrini