31 Maggio 2015

Carissimi Parrocchiani,

proseguendo il racconto della vicenda di Mosè, ora dovremmo considerare gli interventi potenti di Dio – le cosiddette dieci piaghe – con cui ha piegato il cuore del faraone e lo ha convinto a lasciare uscire Israele dall’Egitto.

Si tratterebbe di passare in rassegna le singole piaghe – la piaga delle mosche, delle acque del Nilo che si tingono di rosso, delle ulcere, delle cavallette… – e cercare di leggerne il significato. Preferisco, però, non seguire questa strada e – come suggerisce sant’Ignazio nel suo libro sugli Esercizi Spirituali – porre attenzione con voi ai protagonisti di questi eventi che sono sostanzialmente due: Mosè e il faraone. Guardiamo, dunque, a queste due figure per cercare di capire cosa c’è in noi del faraone, che cosa c’è in noi di Mosé; consideriamo come i rapporti tra Mosè e il faraone interpellano la nostra vita e ci stimolano a lasciare ciò che è fuorviante per valorizzare ciò che invece può alimentare in noi un’esistenza autentica. Sullo sfondo teniamo come punti di riferimento i capitoli 5-11 che raccontano le dieci piaghe e come si è evoluto l’atteggiamento del faraone sia nei confronti di Dio, sia nei confronti di Israele.

Chi è dunque, il faraone? Dai testi appare, anzitutto, come un uomo che sa trattare con le persone, un uomo liberale, aperto al confronto. Così si apre il primo dialogo tra Mosè e il faraone

In seguito, Mosè e Aronne vennero dal faraone e gli annunciarono: “Così dice il Signore, il Dio d’Israele: ‘Lascia partire il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto!’”. Il faraone rispose: “Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce e lasciare partire Israele? Non conosco il Signore e non lascerò certo partire Israele!” (Es 5,1-2).

A prima vista, sembrerebbero parole sprezzanti, ma forse non è così.  In fondo, il faraone ha ragione dal suo punto di vista: egli fa presente che non conosce il Signore. Pertanto, non vede la ragione per cui Mosè debba imporgli una religione diversa dalla sua e di conseguenza la ragione per cui gli Israeliti dovrebbero partire. Più avanti, precisamente dopo la piaga delle mosche, vediamo in lui un uomo disposto a fare dei passi di avvicinamento, a trattare, pur di non chiudere il dialogo.

Il faraone fece chiamare Mosè e Aronne e disse: “Andate a sacrificare al vostro Dio, ma nel paese”. Mosè rispose: “Non è opportuno far così, perché quello che noi sacrifichiamo al Signore, nostro Dio, è abominio per gli Egiziani. Se noi facessimo, sotto i loro occhi, un sacrificio abominevole per gli Egiziani, forse non ci lapiderebbero? Andremo nel deserto, a tre giorni di cammino, e sacrificheremo al Signore, nostro Dio, secondo quanto egli ci ordinerà!”. Allora il faraone replicò: “Vi lascerò partire e potrete sacrificare al Signore nel deserto. Ma non andate troppo lontano e pregate per me” (Es 8,21-24).

In questo testo vediamo bene lo sforzo di quest’uomo per adattarsi e venire incontro. Prima dice di fare il sacrificio in Egitto; poi, accogliendo la richiesta di Mosè, concede di uscire dal paese, anche se chiede di non andare lontano: tre giorni di cammino gli sembrano eccessivi. Addirittura, aggiunge: “Pregate per me”.

Don Luigi Pedrini