San Leonardo Confessore (Linarolo), 29 Settembre 2013
Carissimi Parrocchiani,
dopo aver sostato sull’esperienza della prigionia di Giuseppe, vorrei ora raccogliere qualche considerazione per aprire un confronto con la nostra vita.
Alla luce di questa vicenda possiamo, anzitutto, considerare le nostre esperienze di libertà limitata. Possono essere i momenti in cui ci sentiamo come travolti – quasi “prigionieri” – degli impegni e delle urgenze che premono; oppure, i momenti in cui ci sentiamo colti dalla stanchezza, così che procediamo a fatica, vorremmo fare, ma le forze non rispondono come si vorrebbe.
Possono essere i momenti in cui nello svolgimento del nostro lavoro abbiamo come la sensazione di una certa estraneità: vorremmo presentarci e sentirci accolti per quello che siamo, per quello che crediamo in forza della nostra fede e, invece, ci troviamo a vivere in un ambiente che si muove su altre lunghezze, dove le persone hanno altri interessi e noi fatichiamo ad esprimerci come desidereremmo.
Possono essere i momenti in cui avvertiamo la precarietà della salute: quando non si sta bene, quando si è nella malattia, quando si avverte il peso degli anni che avanzano: anche questi sono tempi di “prigionia”, perché il non poter fare come prima incide sul nostro rapporto con gli altri, sull’assolvimento degli impegni e, perfino, sul nostro rapporto con il Signore: in questi momenti la preghiera diventa alquanto faticosa…
Tenendo presente la testimonianza esemplare di Giuseppe nella prova, possiamo anche chiederci come reagiamo nelle nostre situazioni di “prigionia”: se non ci arrendiamo alla tentazione della tristezza e del risentimento e sappiamo accettarle serenamente con la fiducia e la speranza che il Signore comunque è con noi e, nella sua fedeltà, mai ci abbandona.
Proprio questa fiducia ci testimonia anche Gesù. Il Vangelo racconta che quando egli è arrestato, dopo essere stato interrogato dalle autorità giudaiche, viene condotto nel pretorio per essere giudicato da Pilato. Assistiamo a questo punto a questo singolare colloquio tra Pilato e Gesù: da una parte l’autorità che rappresenta Roma, la potenza di allora, dall’altra, il profeta di Nazaret. Eppure, chi è colto dall’imbarazzo in quella situazione è Pilato, non Gesù. Pilato si trova a disagio di fronte a lui e vorrebbe liberarsene al più presto; Gesù, invece, rimane padrone di se stesso e con fermezza dà la sua testimonianza. Alla domanda che il procuratore romano gli pone: “Che cosa hai fatto di male?” risponde: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio Regno non è di quaggiù”. E quando Pilato, ancor più sorpreso, incalza: “Dunque, tu sei re?”, Gesù risponde: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,35-37).
Come si vede, Gesù è un uomo, ingiustamente, fatto prigioniero e che ha davanti, ormai, la prospettiva di una condanna a morte: eppure, vive tutto questo con profonda libertà e con grande pace.
Don Luigi Pedrini