San Leonardo Confessore (Linarolo), 21 Aprile 2013
Carissimi Parrocchiani,
prima di congedarci da questo episodio nel quale l’onestà di Giuseppe viene messa a dura prova, voglio ritornare sulla vicenda per fare qualche considerazione che può tornare utile anche per il nostro personale cammino di purificazione interiore.
Abbiamo letto nel testo biblico che Giuseppe era bello di forma e attraente di aspetto (Gen 39,6).
Questo particolare nel contesto del brano non vuole richiamare semplicemente l’attenzione su una dote fisica, ma anche alla benedizione di Dio su Giuseppe: la bellezza esteriore di Giuseppe è un segno di gradimento da parte di Dio.
La cosa singolare è che proprio questo dono diventa per Giuseppe il luogo della prova e della prima crisi a cui va incontro nel paese straniero in cui si trova.
Proprio da questa singolarità possiamo, anzitutto, raccogliere una considerazione importante per la nostra vita spirituale: ogni dono, prima o poi, diventa motivo di tentazione.
Per Giuseppe la tentazione consiste nell’accondiscendere alla richiesta della moglie di Potifar e di trarne dei vantaggi per costruirsi una rete di potere e di privilegi nella casa del suo padrone.
A rendere ancora più appetibile questa tentazione contribuisce il fatto che Giuseppe vive come separato in terra straniera: è un separato dai suoi fratelli. Questa dimensione sofferta rende più forte il bisogno di appoggiarsi e di trovare accoglienza presso qualcuno.
Quando una persona ha il cuore ferito e amareggiato è più facilmente esposta alla tentazione di darsi alle cose più banali, di lasciarsi andare. Talvolta, poi, può insinuarsi anche una logica di rivalsa che porta a ragionare presso a poco così: mi hanno messo da parte, mi hanno emarginato; ora, faccio vedere che sono capace di costruirmi io, da solo, un’altra vita…
Ecco, la tentazione: Giuseppe potrebbe utilizzare il dono ricevuto per ricostruire la vita secondo un suo progetto, anziché secondo il progetto di Dio. È la tentazione di sempre dell’uomo, quella a cui hanno ceduto i nostri progenitori, fin dall’inizio, nel paradiso terrestre, quando hanno voluto impadronirsi del dono ricevuto per raggiungere i propri scopi prescindendo dal donatore, cioè da Dio,
Così, questa prima considerazione ci ricorda che proprio dove il dono ricevuto è più grande siamo chiamati a vivere una grande purificazione: proprio lì siamo chiamati a vivere la nostra pasqua, cioè a fare quel passaggio di morte a noi stessi, al nostro egoismo, per rinascere liberi alla vita autentica, quella del dono di sé.
Dunque, questo episodio della vicenda di Giuseppe ci insegna che proprio dove il talento è più forte si incontra la prova della spoliazione, della “chenosi”, cioè dello svuotamento di noi stessi. La posta in gioco è importante: si tratta di far sì che il talento ricevuto sia usato non nell’orizzonte dell’egoismo, ma dell’amore.
Don Luigi Pedrini