7 Aprile 2013

San Leonardo Confessore (Linarolo),  07 Aprile 2013

Carissimi Parrocchiani,

dopo la pausa dovuta, prima, all’elezione di Papa Francesco; poi, alla Settimana Santa e alla Pasqua, riprendiamo il filo della vicenda di Giuseppe.

Abbiamo concluso l’ultima volta sottolineando la dirittura morale con cui egli, piuttosto che offendere Dio e tradire la fiducia del suo padrone, sceglie la fuga di fronte alle molestie della moglie di Potifar. Ed ecco che cosa accade.

 

3Allora lei, vedendo che egli le aveva lasciato tra le mani la veste ed era fuggito fuori, 14chiamò i suoi domestici e disse loro: “Guardate, ci ha condotto in casa un Ebreo per divertirsi con noi! Mi si è accostato per coricarsi con me, ma io ho gridato a gran voce. 15Egli, appena ha sentito che alzavo la voce e chiamavo, ha lasciato la veste accanto a me, è fuggito e se ne è andato fuori”.

 

Dunque, la moglie di Potifar, anziché demordere e rassegnarsi di fronte al comportamento irreprensibile di Giuseppe, preferisce rincarare la dose e passa all’accusa. A questa decisione forse non è del tutto estranea l’intenzione – come annota ancora il card. Martini – di far vedere al marito che lei è una donna desiderata e, quindi, meritevole di attenzione. Infatti, quando il marito ritorna, riferisce la versione dei fatti già data, in precedenza, ai servi.

 

16Ed ella pose accanto a sé la veste di lui finché il padrone venne a casa. 17Allora gli disse le stesse cose: “Quel servo ebreo, che tu ci hai condotto in casa, mi si è accostato per divertirsi con me. 18Ma appena io ho gridato e ho chiamato, ha abbandonato la veste presso di me ed è fuggito fuori”. 19Il padrone, all’udire le parole che sua moglie gli ripeteva: “Proprio così mi ha fatto il tuo servo!”, si accese d’ira. 20Il padrone prese Giuseppe e lo mise nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione.

 

Il marito si accende d’ira e punisce Giuseppe con rigore. Tuttavia, dalla risoluzione presa (“lo mise in prigione”) si capisce che Potifar non è del tutto persuaso dalle parole della moglie. Se lo fosse stato, avrebbe riservato una sorte ben diversa a Giuseppe, dal momento che quel capo di imputazione poteva esse punito anche con la morte. La spiegazione dell’ira di Potifar va cercata, allora, altrove: probabilmente, egli subodora la tresca della moglie, ma non volendo scontrarsi con lei, si vede costretto, suo malgrado, a rinunciare ad un servitore nel quale poteva riporre interamente la sua fiducia.

Così, controvoglia si trova a dover prendere posizione e opta, sia pure con dispiacere, per questa risoluzione. Giuseppe viene consegnato alla giustizia egiziana e ciò a cui va incontro sono le pareti buie di una cella.

Anche se la Scrittura non ne parla espressamente, sappiamo da testimonianze rabbiniche che c’è stato un processo al fine di accertare la veridicità delle accuse sollevate nei confronti di Giuseppe. Anzi, secondo tali testimonianze, i giudici egiziani dovettero constatare palesemente l’innocenza di Giuseppe. Per ragioni, però, di convenienza umana hanno preferito non impugnare la difesa nei suoi confronti. Di questo, però, parleremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini