San Leonardo Confessore (Linarolo), 14 Aprile 2013
Carissimi Parrocchiani,
concludevo l’altra volta accennando ad una testimonianza rabbinica nella quale si mette in risalto la constatazione palese dell’innocenza di Giuseppe da parte dei giudici egiziani e, insieme, la strumentale risoluzione che viene presa per non compromettere il buon nome della famiglia di Potifar.
Così, si legge nel racconto midrashico della tradizione ebraica:
Quando l’accusa della moglie di Potifar contro Giuseppe venne portata dinanzi a una corte, il giudice dopo aver ascoltato le due parti, fece portare la tunica di Giuseppe e la esaminò attentamente.
Tenendola ben in alto disse: ‘Se questo schiavo, come dice la sua padrona, ha tentato di usarle violenza ed è fuggito alle sue grida, la tunica, da lei trattenuta per avere una prova evidente contro di lui, dovrebbe essere strappata sul dorso. Se invece ella gliela strappò per eccitare il proprio desiderio, lo strappo dovrebbe essere davanti’.
Tutti i giudici giurarono solennemente che lo strappo era sul davanti, ma per non gettare in discredito la moglie di Potifar, gettarono Giuseppe in prigione pur raccomandando ai custodi di trattarlo meno severamente dei compagni di carcere.
In questo modo, Giuseppe si trova ancora a sprofondare nel buio e a vivere un’esperienza davvero amara: la sua giustizia, la sua onestà, la sua fedeltà non gli hanno giovato: non sono state capite, né premiate. L’esito è che ora – come già era accaduto prima in occasione del complotto dei fratelli – si ritrova ancora nella fossa.
È ammirevole il grande spirito di sopportazione con cui Giuseppe accetta questa nuova sventura.
Così, annota il testo biblico:
Così egli rimase là in prigione. Ma il Signore fu con Giuseppe, gli conciliò benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del comandante della prigione (Gen 39,20b-21)
Dunque, una nuova grande prova per Giuseppe, ma “con” il Signore al proprio fianco. Egli trova benevolenza attorno a sé, pur nel buio della prigione. Da parte sua, nessuno rimprovero a Dio, né alcuna ribellione interiore.
Giuseppe rimane in carcere due anni, vivendo questo tempo sofferto come una scuola di profonda purificazione interiore.
Don Luigi Pedrini