15 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 15 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

la settimana scorsa concludevo affermando che la storia di Giuseppe, anche se a uno sguardo immediato non appare, è tuttavia profondamente religiosa, al punto da poter affermare che proprio la fede in un Dio che anima ogni singolo avvenimento costituisce la ‘roccia’ del pellegrinaggio di fede di Giuseppe.

Due testi sono profondamente rivelatori al riguardo.

Anzitutto, Gen. 40,8 dove compare per la prima volta sulla bocca di Giuseppe la menzione di Dio. Giuseppe si trova in prigione; nella cella con lui ci sono il coppiere e il panettiere del faraone; tutti e due fanno un sogno e sono in angustia perché non sanno interpretarne il significato. Giuseppe interviene e dà la spiegazione dei due sogni. Ma ciò che a noi interessa è l’affermazione iniziale di Giuseppe. Dichiara: Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni? Queste parole testimoniano che Giuseppe ha acquisito la sapienza di interpretare i sogni, di interpretare cioè il vissuto interiore di una persona, di cui il sogno è espressione. Tuttavia, Giuseppe riconduce questa sapienza a Dio, il vero sapiente che conosce il cuore dell’uomo e che può aiutare ciascuno a penetrare il cuore, a capire chi siamo e dove stiamo andando.

Più importante e rivelativo è Gen. 45,3-8 che riferisce le parole di Giuseppe nel momento in cui si fa riconoscere dai fratelli. Nulla nel contesto lascerebbe prevedere una rivelazione del genere. I fratelli sono da Giuseppe, colui che in Egitto è secondo soltanto al faraone, gli si prostrano davanti e devono rispondere all’accusa di furto della coppa di Giuseppe, che è stata scoperta nella sacca di Beniamino. L’accusa di Giuseppe sembra il preludio di una gravosa punizione. E, invece, la tensione si scioglie improvvisamente. Giuseppe manda via i servi e piangendo, si fa conoscere a loro ed esclama: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello… Dio mi ha mandato qui per conservarvi in vita”. Per tre volte Giuseppe afferma che è stato Dio a “mandarlo” in Egitto al fine di beneficare i suoi familiari: Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio…

“Dio mi ha mandato”: dunque, per Giuseppe, determinante in tutta la sua intricata e sofferta vicenda è l’iniziativa di Dio. Il punto prospettico dal quale egli rilegge l’intera vicenda non è la tresca meschina messa in atto dai fratelli, ma l’iniziativa di Dio che si è servito di quella triste vicenda per attuare un disegno di provvidenza che abbraccia tutta la sua famiglia e, ultimamente, il popolo di Israele.

Giuseppe vive di questa roccia. Da qui scaturisce in lui la capacità di non censurare nulla della sua storia, di non rimuoverla, ma di rileggere ogni avvenimento all’interno di un disegno armonico e provvidente. Per questa strada egli giunge alla scoperta fino di quel ‘nome’ che Dio ha in serbo per lui, cioè della sua ‘vocazione personale’: quella di restituire i suoi fratelli al dono della fraternità riconciliata.

Don Luigi Pedrini