Carissimi Parrocchiani,
accennavo l’ultima volta alla situazione drammatica in cui viene a trovarsi il popolo di Israele dopo essere uscito dall’Egitto. Ha l’impressione di essere finito in un vicolo cieco: il faraone è alle sua spalle che lo insegue con il suo esercito, davanti c’è il mar Rosso a sbarrare la strada. Tutto sembra perduto e il popolo invaso dalla paura grida al Signore la sua disperazione.
Il card. Martini, nel suo commento a questo episodio, per aiutare a renderci conto di come stavano le cose, ha costruito un racconto sapienziale. Lo chiama il “midrash della tenda”.
Scrive:
Immaginiamo la scena. La notte cala molto presto nel deserto; ora siamo all’inizio della notte. A qualche centinaio di metri si sente il va e vieni delle onde del mare, a sinistra si vede l’accampamento degli Ebrei.
Si accendono i primi fuochi; tutti sono affaccendati, gesticolano, raccolti in piccoli campanelli gli omini discutono; c’è qualcosa di grave nell’aria. Un momento di tragedia si sta avvicinando; qualcuno corre nel campo lontano, ritorna, porta notizie. L’eccitazione cresce.
Noi ci avviciniamo all’accampamento e chiediamo spiegazioni… Ci viene indicata una grande tenda al centro del campo: ci avviciniamo alla tenda e cerchiamo di vedere cosa sta avvenendo là dentro. C’è un uomo pallido, ansimante, senza parola; attorno a lui altri uomini con lunghe barbe e con i pugni tesi. Capiamo che quell’uomo deve essere Mosè e gli altri gli anziani di Israele. Cosa fa Mosè? È lì, sta zitto, sembra quasi paralizzato. E gli anziani d’Israele che fanno? Parlano, gridano, inveiscono, come fanno gli orientali quando si adirano. Cerchiamo di capire cosa dicono.
Uno dice: “Ecco, Mosè, dove ci hai portato! Ti abbiamo creduto, pensavamo che Dio ti avesse parlato; e, invece, siamo qui a morire come topi: o ci gettiamo in mare e moriamo annegati, o ci lasciamo uccidere dal faraone. Ecco deve siamo: è la fine per Israele!”.
Un altro si alza e dice: “Credevamo che tu, Mosè, fossi cambiato; ti conoscevamo imprudente e cocciuto, ma credevamo che il deserto ti avesse giovato. Invece, sei rimasto proprio uguale a quello che eri. E ci hai fatto di nuovo precipitare nel disastro”.
Un terzo: “ Fratelli ascoltatemi: noi abbiamo delle armi (infatti, dice il v. 16 del cap. 13: ‘Gli israeliti bene armati uscirono dal paese d’Egitto’); è vero che gli egiziani sono potentissimi, ma se andremo contro di loro, almeno chiuderemo la nostra storia gloriosamente. Moriamo da eroi e diamo lode a Jahvé cadendo con le armi in pugno!”.
Un quarto, più venerabile degli altri, dice: “Fratelli, ascoltatemi: ho molta esperienza della vita. Conosco bene Mosè e non ho avuto molta fiducia in lui nemmeno quando è tornato; capivo che era un visionario. Tuttavia ascoltatemi: il faraone, lo conosco, non è cattivo; inoltre, ha bisogno di noi, quindi non ha nessuna intenzione di sterminare il nostro popolo, ma anzi ha tutto l’interesse a reintegrarci nella nostra situazione. Siamo utili e non tentiamo Dio: la nostra posizione è insostenibile. Mandiamo quindi un’ambasceria al faraone; Mosè non si faccia proprio vedere; vadano invece alcuni dei nostri uomini saggi a dirgli: ‘Abbiamo peccato, riaccoglici, siamo pronti a tornare indietro: ci siamo fidati di quest’uomo che ci ha ingannati”. Poi, il tono di questo vecchio si fa più suadente, più forte: “Fratelli, ascoltatemi: il faraone significa la sicurezza, la pace, il pane per i nostri figli: non rigettate questa offerta, non siate pazzi”.
Un altro si alza e dice: “E se veramente Dio avesse parlato a Mosè? Cosa faremo: andremo contro Dio?”. Ma un altro lo contraddice: “No, non è possibile, Dio non può abbandonare il suo popolo. La nostra situazione è disperata: come può Dio volere la nostra disperazione?.
Don Luigi Pedrini