22 Marzo 2015

Carissimi Parrocchiani,

dopo il valore del silenzio, voglio ricordare alla luce dell’episodio del roveto ardente ancora tre condizioni fondamentali che favoriscono l’autentica esperienza di Dio.

La prima è bene evidenziata dal v. 3 che riferisce la decisione coraggiosa di Mosè di verificare di persona quel roveto che brucia senza consumarsi: “Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?”. Queste parole rivelano che Mosè, nonostante l’età avanzata (ha ottant’anni) e nonostante abbia tutte le ragioni per sentirsi un uomo arrivato, è ancora capace di meraviglia e di farsi domande: “perché il roveto non brucia?”. È un uomo aperto al nuovo, aperto alla speranza. Se fosse stato un uomo amareggiato e rassegnato, si sarebbe limitato a dire: “Sì è una cosa strana, ma in fondo non mi riguarda”. E, invece, vuol capire, avvicinarsi a vedere ( = “katanoesai”). Per sé questo verbo “katanoesai” che contiene in radice il termine nous che significa intelletto dice di più che il semplice ‘vedere’: allude a un’azione che coinvolge gli occhi e, insieme, l’intelletto. Pertanto, rimanda a un guardare interessato, non superficiale che si potrebbe intendere nel senso di considerare, riflettere, cercare di comprendere. Mosè è, dunque, animato da questo atteggiamento: è un uomo vecchio, ma interiormente profondamente vivo.

La seconda condizione la cogliamo nel v. 5 e, precisamente, nel comando di togliersi i sandali. Questo togliersi i sandali è un’altra condizione fondamentale per l’autentica esperienza di Dio. Dio, infatti, lo si può incontrare se si è disposti a mettere da parte le proprie precomprensioni per aprirsi in tutta semplicità e rispetto al suo mistero. Sappiamo bene che quando si tolgono i sandali e si deve camminare a piedi nudi su un terreno che è una pietraia non si cammina bene, il passo non è più sicuro, si fa incerto. Questo significa che non si può entrare nel mistero di Dio marciando trionfalmente. Si entra con rispetto, con umiltà. Ci si presenta in punta di piedi, non volendo imporre a Dio il proprio passo, ma lasciandoci attrarre nel suo.

La terza condizione la possiamo riconoscere nel v. 7 che sottolinea l’iniziativa libera e misericordiosa di Dio a favore del popolo schiavo in Egitto: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto…”. Questa sottolineatura chiede a Mosè e a tutti quanti sono alla ricerca di Dio la disponibilità a convertirsi al volto ‘nuovo’ di Dio. Mosè fino ad allora aveva pensato Dio come Colui per il quale occorre fare molto: aveva pensato che Dio gli chiedesse di rinunciare alla sua posizione di privilegio, di coinvolgersi nelle fatiche dei suoi fratelli, di spendersi anche a costo di vedersi non compreso e rifiutato. Adesso, comincia a capire che Dio è diverso: non è uno che chiede per sé e ti usa, ma è il Dio di misericordia che prima di chiedere qualcosa si prende cura di te, ti risolleva, ti rimette in gioco per, poi, coinvolgerti in un’opera di salvezza che è anzitutto sua.

Questa terza condizione ci spinge a domandarci se la nostra fede è nella linea di primo Mosè o del secondo Mosè. Siamo nella linea del secondo Mosè se custodiamo viva la coscienza che l’opera con la quale diamo testimonianza della nostra fede non è nostra, ma è di Dio e che siamo, senza nostro merito, semplici collaboratori di qualcosa che ci precede e che è più grande di noi.

Don Luigi Pedrini