01 Febbraio 2015

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Mosè che trova rifugio nella terra di Madian, viene accolto in casa dal pastore Ietro, sposa la figlia Sipporà dalla quale ha un figlio, Ghersom. Il futuro della sua vita sembra ormai deciso. Ma proprio in questa situazione, viene a collocarsi la chiamata di Dio, la sua ‘vocazione’. Tutto avviene sul “monte di Dio” che noi conosciamo come Sinai o anche Oreb. Questo monte si trova nella zona meridionale della penisola del Sinai, una zona montuosa che, probabilmente, aveva un valore di sacralità presso le popolazioni madianite che la abitavano.

Gli esegeti fanno notare che questo testo è nato dall’intreccio di diverse tradizioni bibliche: se da una parte, stenta a raggiungere una piena unificazione; dall’altra, rivela la preoccupazione di non voler perdere nulla del patrimonio tradizionale. In ogni caso risulta chiaro qual è il cuore del racconto che vuole trasmettere: nella vita di Mosè, un giorno, è accaduto qualcosa di importante che ha segnato uno stacco tra il prima e il dopo. Questo qualcosa ha orientato nuovamente Mosè verso il servizio al suo popolo e alla missione. Seguiamo, allora, i passi progressivi del racconto.

Dopo molto tempo il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio (Es 2,23). La sorte degli ebrei in Egitto rimane alquanto drammatica e neanche la morte del faraone che li ha duramente sottoposti ai lavori forzati non apporta alcun sollievo. In questa situazione innalzano il loro grido a Dio. Gemettero, dice il testo. Il gemito è l’espressione di una sofferenza indicibile, resa insopportabile dal fatto di non lasciar vedere alcuna via d’uscita.

Il lamento che innalzano non si accompagna ad una richiesta esplicita di liberazione. Sembra di capire che gli israeliti non sono ancora pronti per un passo del genere. Forse appare loro un traguardo troppo alto: abituati come sono a vivere in schiavitù non sono più capaci di pensare ad una vita diversa. La loro speranza è timida e incerta, forse anche per una certa paura che incute la libertà. L’Egitto per loro significa servitù, ma anche sopravvivenza assicurata. Basterebbe un servizio più leggero per rendere la loro permanenza accettabile; l’uscita dall’Egitto significa invece intraprendere il cammino verso la libertà che, se è affascinante, è anche pericoloso. C’è il deserto da attraversare e non è scontato l’avere sempre il necessario per sopravvivere. Dunque, il cammino della libertà costa e fa paura.

C’è da notare che il testo non dice che gli israeliti innalzarono a Dio grida di preghiera, ma grida di lamento che tuttavia raggiungono il cuore di Dio: Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero (Es 2,24-25). Questo “se ne prese pensiero” rivela il movente di tutta la vicenda dell’Esodo. All’inizio c’è questo darsi pensiero da parte di Dio.

Così, prende avvio una nuova storia: non più la storia di uomini singoli, come Abramo, Isacco, Giacobbe, ma la storia di un popolo, di una umanità redenta.

Ci prepariamo, in compagnia di Mosè, a seguire i primi passi di questa nuova storia.

Don Luigi Pedrini