23 Novembre 2014

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Mosè infante accolto nella casa del faraone come un figlio, lo ritroviamo, pochi versetti dopo, adulto che va a visitare i suoi “fratelli” per rendersi conto delle loro condizioni di vita. Si recò dai suoi fratelli… (Es 2,11): il testo lascia capire che Mosè è a conoscenza delle proprie origini. Sa di essere un privilegiato in Egitto: pur appartenendo a un popolo oppresso dalla schiavitù è un uomo libero, perfettamente istruito nella sapienza egiziana.

Notò i lavori pesanti da cui erano oppressi (Es 2,11): Mosè si dimostra una persona dall’indole generosa. La sua fortunata condizione non lo porta a disinteressarsi del suo popolo e a vivere agiatamente alla corte del faraone; piuttosto, si dà pensiero per i suoi fratelli. È un giovane intraprendente che vuole assumere le proprie responsabilità di fronte alla vita e che, probabilmente, va considerando che questa vicinanza ai suoi fratelli più sfortunati potrebbe essere proprio il suo campo di lavoro. Si farà paladino presso gli egiziani dei diritti del suo popolo.

È così deciso ad assumersi questa responsabilità che non esita anche a passare ai fatti: Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo seppellì nella sabbia (Es 2,11-12). La reazione di Mosè è espressione di un uomo molto deciso, convinto nei suoi principi, forse un po’ idealista come può succedere quando si è ricevuto una formazione culturale un po’ fuori dal comune. Certo, è un uomo generoso, tanto da essere disposto anche a compromettere la propria reputazione pur di difendere i fratelli e essere fedele ai principi in cui crede.

C’è, tuttavia, in questo comportamento qualcosa di stonato: il sentirsi animati da ideali di solidarietà non è necessariamente segno di una missione ricevuta da Dio. Solo la chiamata di Dio abilita alla missione: diversamente si corre il rischio di immettersi in un campo che non è il proprio. E infatti Mosè si vede rimproverato proprio in questo senso da un fratello ebreo: Il giorno dopo, uscì di nuovo e, vedendo due Ebrei che stavano rissando, disse a quello che aveva torto: “Perché percuoti il tuo fratello?”. Quegli rispose: “Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi, come hai ucciso l’Egiziano?”. La domanda è significativa. In fondo gli rinfaccia: “Chi sei tu per ritenerti garante della giustizia in mezzo a noi? Chi ti ha dato autorità?”

Dunque, Mosè, nonostante la sua generosità, si vede rifiutato proprio dai suoi stessi fratelli. Evidentemente percepiscono in questa iniziativa qualcosa di stonato. Forse, si rendono conto che una giustizia puramente umana che oppone violenza a violenza non fa che generare altra violenza e altre uccisioni.

Allora Mosè ebbe paura e pensò: “Certamente la cosa si è risaputa”. Poi il faraone sentì parlare di questo fatto e cercò di mettere a morte Mosè (Es 2.14-15). Mosè rifiutato è preso dalla paura. Lui, guardato come un principe dai suoi fratelli, ora si rende conto di essere un uomo come gli altri, un ebreo tra i tanti. E così si trova a vivere un momento di disillusione che lo provoca a una conoscenza più realistica di sé e a un ripensamento del compito di guida del suo popolo.

Don Luigi Pedrini