San Leonardo Confessore (Linarolo), 08 Settembre 2013
Carissimi Parrocchiani,
per introdurci alla riflessione sulla sofferta esperienza della prigionia vissuta da Giuseppe, ci lasciamo aiutare da alcune pagine poetiche del romanzo di Thomas Mann intitolato Giuseppe il nutritore. Lo scrittore, dimostrando una profonda conoscenza dell’animo umano, rivela i sentimenti e i pensieri che si affollavano nel cuore di Giuseppe mentre si trovava in viaggio sulla barca che, attraverso il grande fiume, il Nilo, lo stava portando in prigione.
“Le circostanze in cui si trovava erano abbastanza cupe; con pensosa tristezza egli le osservava, mentre con i gomiti legati giaceva sulla sua stuoia nella cabina, il cui tetto era carico di vettovaglie per l’equipaggio: meloni, pannocchie di meliga e pane.
La sua situazione era il ripetersi di un’altra terribilmente nota: senza aiuto e abbandonato, egli giaceva ancora una volta in ceppi, come nei tre giorni terribili della luna nera, in cui era stato laggiù nella profondità della buca insieme con scarafaggi e millepiedi e come una pecora si era rivoltato nella propria lordura. E se anche le condizioni erano ora meno aspre perché i ceppi gli erano stati messi solo, diciamo così, per formalità e la corda, sia riguardo o involontaria clemenza, non lo stringeva troppo forte, la caduta non era però meno profonda e violenta, né meno improvviso e incredibile il mutamento di vita.
Il figlio prediletto del padre – il beniamino che si era sempre unto con olio di gioia – era stato allora trattato come non mai, nemmeno lontanamente, avrebbe creduto possibile, e ora a Usarsif – tanto in alto salito nel paese dei morti, avvezzo a dirigere una grande casa, a goder gli agi di una raffinata cultura, a indossare vesti di pieghettato lino, a dormire nella “Camera della Fiducia” – gli capitava una cosa simile; anch’egli riceveva un colpo inatteso e tremendo […] Un ciclo di vita era compiuto, un piccolo ciclo che si compiva spesso, ma anche uno più grande, più raro, che riportava le stesse cose; perché i cicli si intersecavano in un punto centrale comune. Un breve anno aveva compiuto il suo giro, un anno solare: le acque che deponevano il fango si erano ritirate ed era il tempo della seminagione, il tempo della zappa e dell’aratro, il tempo in cui la terra veniva rivoltata “. Ogni tanto veniva concesso a Giuseppe di alzarsi dalla stuoia e di fare due passi in coperta e gli capitava di piangere vedendo “i contadini che seppellivano il grano, perché anch’egli veniva sepolto nel buio, in un mondo pieno di speranze lontane. […]
Ogni ora ha la sua dignità e il suo diritto, e non vive secondo le leggi della vita chi non può disperare. Giuseppe era di questa opinione. La sua speranza era anzi un certissimo sapere; ma egli era anche un figlio del presente, e piangeva.
Egli conobbe le sue lacrime. Era profondamente esausto per le pene e i pericoli passati: l’affanno creatogli dalla donna, la grave crisi in cui quest’affanno era culminato, il rivolgimento che aveva mutato tutta la sua vita” (Cfr. Thomas Mann, Giuseppe il nutritore, Mondadori, Milano 1993, pp. 31-33)
Don Luigi Pedrini